RECENSIONE SEGUITA DA UNA SELEZIONE DI BRANI IMPORTANTI DEL LIBRO "CITTA' MAYA" DI PIERRE IVANOFF (1970) E ALTRI CONTENUTI DI APPROFONDIMENTO DEL CONTESTO CULTURALE E MITOLOGICO. L'OPERA CONTIENE PLAUSIBILI TEORIE E PROFONDE INTERPRETAZIONI DEI SIGNIFICATI SIMBOLICI E FILOSOFICI DEI MITI E DELLE TESTIMONIANZE MONUMENTALI DI QUESTA CIVILTA'.
Lessi per la prima volta "Città Maya" di Pierre Ivanoff quando avevo 12 anni. Oggi, attraverso la lente di una più profonda e ampia comprensione, lo posso giudicare come un'opera davvero irrinunciabile nel panorama dei testi sulla civiltà Maya e le civiltà precolombiane in generale, un classico citato fra i migliori sulle riviste di archeologia (Archeo 1990, n.66, pag.109) e nei saggi di studiosi storici come, ad esempio, "I miti maya e aztechi" di Angelo Morretta. L'ispirata presentazione di Miguel Angel Asturias (Premio Nobel e scrittore guatemalteco) ci apre la strada ad una migliore comprensione della mentalità e dell'universo maya, arricchito dalle citazioni di Aldous Huxley, riportate qui in seguito nella descrizione dell'"Urna di Teapa". Questa breve recensione non vuole sostituire il saggio che dovrò in seguito scrivere sulla mitologia maya, il Popol Vuh e un po' di storia, ma è chiaro che senza questo libro la ricerca sarebbe stata privata di importanti informazioni introvabili altrove, oltre a convincenti intuizioni e teorie proposte dall'autore.
Per fare qualche esempio (poi approfondito nei brani qui di seguito pubblicati), alle pagine 138-139 viene riferita l'esistenza di una "lingua segreta" conosciuta solo nell'ambito di una ristretta cerchia di appartenenti ad una casta privilegiata, definita come "lingua esoterica" con cui venivano svolti gli interrogatori per le cariche più importanti; non sono riuscita a trovare altre fonti con riferimenti a questo importante dettaglio connesso alle origini stesse di questa civiltà, ma l'autorevolezza dell'autore non lascia spazio a dubbi.
Alle pagine 54-55 Ivanoff espone la sua teoria (a mio avviso tutt'ora la più plausibile) sulla fine della civiltà Maya, tanto misteriosa quanto repentina e, dunque, probabilmente più connessa a fattori di carattere ideologico o di autosuggestione piuttosto che a condizioni climatiche o naturali; peraltro, le calamità naturali non hanno mai causato il crollo di civiltà o culture, come nota bene Eric Thompson in "La civiltà Maya" e lo stesso Ivanoff in questo libro; l'ipotesi di Pierre Ivanoff, riassumendo (l'argomento sarà approfondito nei brani del libro riportati in seguito) identifica nell'ossessione del controllo dell'universo e del "Tempo" (considerato dai Maya come entità reale e perciò divinizzato) la causa dell'autodistruzione per dissolvimento della civiltà Maya, la cui epoca classica iniziò nel III secolo d.C., tramontando agli albori dell'VIII secolo d.C., pur avendo, come ogni altra, radici preistoriche e protostoriche (in questo caso nel cosiddetto "Periodo Formativo" delle civiltà precolombiane, identificato nella grande cultura degli Olmechi).
In sostanza, la civiltà Maya si sarebbe così "dissolta" e la popolazione dispersa, assieme alle classi aristocratico-sacerdotali, perchè nel X secolo d.C. veniva annunciata, secondo i calcoli tortuosi del gigantesco calendario sacro, la fine del mondo e del genere umano, inducendo i Maya stessi all'autorealizzazione di questo pronostico. Che un delirio di onnipotenza delegato alla propria geniale creazione matematica e astronomica, abbia indotto una civiltà alla disgregazione, abbandonando luoghi di culto, città, coltivazioni, ecc...in un arco temporale inspiegabilmente breve, è ipotesi plausibile se si escludono eventi naturali, malattie e altre avversità che non sono in grado di causare il dissolvimento di una cultura strutturata e incentrata su solide basi ideali e filosofiche. Ed è forse proprio lo sfociare di tutto questo enorme apparato di conoscenze in strumento di potere che ne ha determinato il deterioramento e la rovina, come si vedrà nel brano dedicato copiato dal libro. La trasformazione della conoscenza in strumento di potere rifugge la dimensione puramente contemplativa, di pienezza appagante, e richiama la necessità di "asservire" le leggi e le forze cosmiche alla propria volontà, in una sorta di manipolazione della legge di compensazione universale; probabilmente, come affermò il missionario Bartolomè de las Casas nel XVI secolo, i sacrifici rituali, sia umani che animali, erano dovuti proprio ad una mancanza di fede; ma questo è un argomento che sarà approfondito nel mio prossimo saggio.
A pagina 43 viene descritta la fondamentale importanza delle stele, erette ad ogni conclusione del ciclo di un katun (periodo di 20 anni) davanti alle quali venivano posti elaborati altari di pietra, i cui glifi sono connessi sempre al computo del tempo, alla necessità di "fermare" date ed eventi, in previsione del ritorno ciclico delle medesime condizioni che causarono avversità o vittorie.
"Nessun popolo al mondo ha mai avuto una tale preoccupazione del tempo, un'ossessione che è imparentata con la magia e che costituì il motore di tutta la sua civiltà". (pag.43)
Ai piedi delle stele vi erano le offerte e i sacrifici e l'autore ipotizza, plausibilmente, che le stesse città (o meglio, centri sacri) siano state edificate per fungere da cornice a questi monumenti di pietra. D'altro canto, è ormai risaputo che i centri monumentali maya non erano "città" come le possiamo intendere noi, ma luoghi sacri in cui risiedevano unicamente i sacerdoti-astronomi; la popolazione, le case comuni, i campi coltivati si estendevano sullo sfondo della periferia.
La descrizione dei calendari e dei loro computi, connessi alla visione quadripartita del tempo, dei Quattro Mondi e dei Quattro Soli, è esposta esaurientemente alle pagine 46-47-48-49 dell'opera. "...i Maya non conoscevano il vetro e di conseguenza qualsiasi forma di ottica. Orologio, orologio a polvere, clessidra, tutti gli strumenti per la misurazione di lassi di tempo inferiori alla giornata (ore, minuti, secondi), senza i quali sembra impossibile la rilevazione di dati astronomici esatti, erano a loro sconosciuti. E tuttavia la durata dell'anno solare maya era più precisa del nostro anno gregoriano: anno solare vero e proprio determinato dall'astronomia moderna 365,2422 giorni; anno solare del calendario maya 365, 2420 giorni; anno solare del calendario gregoriano 365, 2425 giorni". Del pari il calendario venusiano è estremamente vicino a quello moderno, essendo quello maya di 584 giorni, quello moderno di 583,920. Altrettanto preciso il calcolo delle lunazioni, 29 e 30 giorni alternativamente.
"Studi assai progrediti ci insegnano che i Maya sono stati matematici geniali. Furono i primi nel mondo a concepire lo zero; il sistema di posizione ha loro consentito di conseguire calcoli con numeri che superavano il milione". (Introduzione, pag.11)
P.S: questo post è arricchito da approfondimenti da me scritti e aggiunti per una migliore comprensione del contesto culturale e ideologico della civiltà Maya.
Alessia Birri
Note sull'autore
Pierre Ivanoff è nato a Ligny-en-Barrois (Francia) nel 1924, morto nel 1974. Assieme ad un altro studioso inglese, partecipò nel 1951 alla scoperta delle origini dell'Orinoco. Etnografo, ha dedicato dodici anni della sua vita allo studio dei gruppi maya e degli antichi monumenti di quella civiltà. A lui si deve la scoperta della città di Dos Pozos, nella giungla del Petèn. E' stato autore di numerose opere e ha collaborato a diverse riviste specializzate.
RACCOLTA DI BRANI DAL LIBRO E ALTRI CONTENUTI DI SUPPORTO ALLA COMPRENSIONE GENERALE:
Bassorilievo dal sito Maya di Yaxchilan, stato del Chiapas, Messico, in pietra calcarea, datato 723 d.C., ovvero al Periodo Classico di questa civiltà; misure: 109 x 78 cm.; è uno della serie di tre pannelli della Struttura 23 di Yaxchilan. "Sedute d'iniziazione, pratiche estatiche, visioni: è questo il contenuto affascinante dei bassorilievi della seconda serie di architravi. Sull'Architrave 26, per esempio, un neofita riceve dal sommo sacerdote una testa o maschera di giaguaro, simbolo dell'ordine omonimo. Più sorprendenti sono gli architravi del gruppo dell'autosacrificio. Uomini fastosamente abbigliati si fanno passare con zelo una corda munita di spine attraverso un foro praticato nella lingua; il loro sangue cola in un recipiente colmo di bastoni d'incenso, di copale e di caucciù". (Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970 - Mondadori)
Statua
in pietra calcarea priva di testa, datata 736 d.C., alta 45,7 cm., dal
sito archeologico Maya di Yaxchilàn ("Pietre Verdi" in lingua maya), in
Messico, nello stato del Chiapas, sulle rive del fiume Usumacinta.
"La
vegetazione tentacolare striscia dovunque, s'infiltra fin nel minimo
interstizio dell'edificio, che pure è stato sgombrato dalla mano
dell'uomo ma che è deteriorato dai secoli e dalle intemperie. Lo sguardo
si sofferma con più agio su una statua di pietra a grandezza naturale,
assisa a gambe incrociate davanti al portale principale e decapitata. Il
personaggio ha lo stupefacente privilegio di vivere tuttora nel cuore
degli uomini della foresta: un centinaio appena di Lacandòn, Indios dai
lunghi capelli, avvolti in ampie tuniche, frequentavano ancora qualche
anno fa questo tempio deserto per celebrarvi misteriosi riti
magici-religiosi".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori)
"In origine il tempio Maya è una semplice capanna, santuario a immagine e somiglianza della capanna familiare a tetto conico. Nel corso dei secoli si è trasformato in edificio in pietra, ma l'impiego della pietra ha limitato gli spazi interni. Le sale si sono fatte buie, anguste. A questo proposito è interessante notare che il termine Maya "Actun" serve a designare indifferentemente il tempio e la caverna. In effetti l'interno dei templi rappresenta anche una sorta di caverna, cuore delle attività religiose, dei riti magici, dei segreti. Nella civiltà Maya, la caverna rimane un luogo privilegiato, investito di significati simbolici. La città sparisce nella foresta, vi si annega, indiscernibile".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori)
Coperchio
del sarcofago (3,80 x 2,20 metri; datazione: 683 d.C.) e corredo
funerario con maschera di giada del Re PAKAL, scoperto nella piramide
conosciuta come il "Tempio delle Belle Iscrizioni" della città Maya di
PALENQUE; Stato del Chiapas, Messico; rappresenta il Re Maya PAKAL
circondato da numerosi elementi simbolici e geroglifici. Il Re è in
posizione fetale sulla testa di una divinità che mostra le sue zanne.
Dal suo corpo sorge l’Albero della Vita, che segna le quattro direzioni
del Cosmo. Attorno alle braccia dell’Albero c’è un serpente a due teste.
In cima all’Albero, sotto forma di Quetzacoatl (serpente piumato) si
trova il dio supremo dei Maya: Itzamna.
Pakal K'inich Janaab'
(603–683 d.C.), conosciuto anche come Pakal il Grande o semplicemente
Pakal, è stato il più celebre Re Maya. Essendo stato sovrano per 68 anni
e 33 giorni, il suo regno è al quinto posto tra i regni più lunghi
della storia.
Maschera di giada del Re Maya PAKAL (603–683 d.C.) , parte del corredo funerario presente all'interno del sarcofago scoperto nella piramide detta "Tempio delle Belle Iscrizioni" della città Maya di PALENQUE, Stato del Chiapas, Messico.
Testa-ritratto in stucco del Re Maya Pakal, dal sito archeologico di Palenque, stato del Chiapas, Messico, VII secolo d.C.; altezza: 43 cm.; scoperta presso il sarcofago di Pakal, nel Tempio delle Belle Iscrizioni. Come dimostrato da quest'opera, a Palenque, nell'età Classica della civiltà Maya, si sviluppò uno stile straordinariamente realistico.
La scena
mostra un rito che, in onore del dio GI, fu eseguito da K'inich Kan
B'ahlam (a sinistra) il giorno della sua intronizzazione (7-gennaio-684
dC); È accompagnato da suo padre, K'inich Janahb' Pakal, che era già
morto ma è rappresentato come un partecipante vivente alla cerimonia. GI
è una divinità solare appartenente alla triade GI-GIL-GILL di Palenque,
relativi al Sole, Venere e Mercurio. La sacra immagine di Pakal
trasmette l'onere dell'autorità al nuovo sovrano, concedendogli la
successione della signoria. Una fascia con segni di corpi astronomici
percorre la parte inferiore della scena, a denotare che l'evento si
svolge nelle alture celesti. Quest'area corrisponde pienamente alla
connotazione del Tempio della Croce come immagine architettonica del
mondo superiore e "casa" di GI, la sua divinità dominante. La scena è
dominata da un elemento centrale a croce, da cui deriva il nome della
tavola e dell'edificio. È contrassegnato dai segni di "te", "albero", e
rappresenta dunque l'albero cosmico. Le braccia dell'albero cruciforme
sono sormontate dal serpente a due teste, un'entità rappresentativa del
fuoco solare. Nella parte superiore dell'albero siede Xib' Muut, un
aspetto del dio supremo Itzamna come divinità protettrice degli uccelli e
del livello celeste. Il testo glifico racconta eventi mitici, come: la
nascita di Muwaan Mat, entità capostipite delle tre divinità protettrici
di Palenque (2-gennaio- 3120 a.C.), e la sua presentazione del “fascio
cerimoniale mayiij” (1-marzo. - 3112 aC); la discesa e l'ascesa da e
verso le vette celesti del dio GI (3-mar-3112 aC), nonché la sua
rinascita (10-nov-2360 aC); e la mitica intronizzazione di Muwaan Mat
come "Sacro Sovrano di Matwiil (Palenque)". Le date estremamente precise
sono dovute alla minuziosa annotazione dei fatti mitici sul calendario
Maya nel ciclo di tempo da esso compreso, che sono state comprese dagli
studiosi grazie a trascrizioni successive alla conquista spagnola. La
croce è un simbolo primordiale e universale, la più antica presente
nella caverna di Chauvet, in Francia, risalente a 36.000 anni fa.
Rappresenta l'Albero della Vita, o Albero Cosmico, per analogia è
associato al corpo umano ridotto all'essenziale nella concezione
dell'uomo come "passaggio", come tramite delle forze o centro del mondo.
IL CORMORANO NEL MITO MAYA DELLA CREAZIONE
FOTO 1:
Pendente
di conchiglia raffigurante un CORMORANO (uccello acquatico dal collo
lungo) con le ali spiegate e la testa di una divinità effigiata nel
petto.
Misure: 6,4 x 6,4 cm.
Datato: circa 600 d.C.
Materiale: conchiglia
Civiltà Maya
Provenienza: Guatemala
Il Calendario maya del LUNGO COMPUTO stabilisce che nel 3121 a.C. nacque la DEA CORMORANO.
Quando
MARTE completò il moto retrogrado e terminò la visibilità nel cielo
notturno subito dopo il tramonto, la DEA CORMORANO (IXIIM MUWAAT MAT),
non vedendolo più, fece penitenza digiunando e nutrendo con il proprio
sangue il primo dei suoi tre figli (che rappresentano la TRIADE degli
dèi protettori di PALENQUE, i cui nomi sono: CHAC XIB CHAC/DIO Gi;
K'AWIIL/DIO Gil, o anche dio K, in epoca classica; KINICH AHAU/ DIO
Gill), nel sito dove sorgerà proprio la città di PALENQUE, il cui
toponimo mitico è MATAWIL, il 21 ottobre 2360 a.C.
E nei templi
del GRUPPO DELLE CROCI DI PALENQUE ("Tempio della Croce"-"Tempio del
Sole" e "Tempio della Croce Fogliata") è stata registrata l'origine del
mondo attuale. La storia cosmogonica inizia con la sacra biografia di un
personaggio legato al CORMORANO, il cui nome è IXIIM MUWAAN MAT. Il
CORMORANO è associato al cielo e all'acqua, elementi da cui emergerà il
mondo, che presenta il personaggio come una divinità creatrice.
La
discesa del dio GI avvenne a MATAWIL, "luogo dove abbondano i
cormorani", nome dello spazio sacro di PALENQUE, dove si trovavano i
templi delle tre divinità protettrici.
Questo luogo è il tumulo
naturale o "montagna sacra" su cui fu eretto il TEMPIO DELLA CROCE,
all'interno del quale si trova la "TAVOLA DELLA CROCE": bassorilievo in
stucco raffigurante un rito di intronizzazione ai piedi dell'ALBERO
COSMICO (rappresentato, appunto, dalla croce alla cui sommità compare un
CORMORANO).
Lo spazio in cui si trova il TEMPIO DELLA CROCE era
concepito come un AXIS MUNDI in cui si compiva la creazione del mondo da
parte della suprema divinità celeste chiamata GI, il dio del Sole.
FOTO 2:
"TAVOLA
DELLA CROCE": bassorilievo in stucco dal TEMPIO DELLA CROCE, città Maya
di PALENQUE, Stato del Chiapas, Messico, largo 3 metri (con i due
pannelli laterali) per 1,10 di altezza.; datato 684 d.C.
La scena
mostra un rito che, in onore del dio GI, fu eseguito da K'INICH KAN
B'AHLAM il giorno della sua intronizzazione (7-gennaio-684 dC). È
accompagnato da suo padre, K'INICH JANAHB PAKAL, che era già morto ma è
rappresentato come un partecipante vivente alla cerimonia. GI è una
divinità solare appartenente alla triade GI-GIL-GILL di PALENQUE,
relativi al SOLE, VENERE e MERCURIO. La sacra immagine di PAKAL
trasmette l'onere dell'autorità al nuovo sovrano, concedendogli la
successione della signoria. Una fascia con segni di corpi astronomici
percorre la parte inferiore della scena, a denotare che l'evento si
svolge nelle alture celesti. Quest'area corrisponde pienamente alla
connotazione del TEMPIO DELLA CROCE come immagine architettonica del
mondo superiore e "casa" di GI, la sua divinità principale. La scena è
dominata da un elemento centrale a croce, da cui deriva il nome della
tavola e dell'edificio. È contrassegnato dai segni di "TE", "albero", e
rappresenta dunque l'ALBERO COSMICO. Le braccia dell'albero cruciforme
sono sormontate dal SERPENTE A DUE TESTE, un'entità rappresentativa del
FUOCO SOLARE. Nella parte superiore dell'albero siede XIB' MUUT, un
aspetto del dio supremo ITZAMMA come divinità protettrice degli uccelli e
del livello celeste. Le date estremamente precise sono dovute alla
minuziosa annotazione dei fatti mitici sul calendario Maya nel ciclo di
tempo da esso compreso, che sono state decifrate dagli studiosi grazie a
trascrizioni successive alla conquista spagnola.
FOTO 3:
La
DEA CORMORANO (IXIIM MUWAAT MAT), madre delle tre divinità (Gi,Gil,
Gill) protettrici della città maya di PALENQUE (200-900 d.C.)
Immagine
dal Codice di Dresda: manoscritto Maya su corteccia battuta di Ficus,
risalente al XIII secolo d.C. E' il codice Maya più antico sopravvissuto
alla distruzione spagnola. E' formato da 78 pagine ripiegate a
fisarmonica, per una lunghezza di 3,50 metri. Custodito presso la
Biblioteca di Dresda, Germania, dal 1739.
FOTO 4:
Scultura
di pietra dal TEMPIO 26 della città maya di COPAN, Honduras. Misura
circa 35 cm.; datata circa 700 d.C. Rappresenta il dio "Gi" della TRIADE
DI PALENQUE (Gi, Gil, Gill), corrispondenti al SOLE, VENERE e MERCURIO,
creatori del mondo conosciuto, figli della DEA CORMORANO "IXIIM MUWAAT
MAT.
Nel 1987, una stanza sepolta e una struttura demolita furono
trovate all'interno dell'angolo nord-est della versione finale della
STRUTTURA 26 nella città maya di COPAN, completa di elaborate sculture
all'interno. Poiché è stata una scoperta a sorpresa, è stata
soprannominata STRUTTURA "HIJOLE" (esclamazione locale di meraviglia).
Questa
splendida scultura di CORMORANO (uccello acquatico) è forse l'opera
d'arte più straordinaria trovata a COPAN. È scolpita in una roccia. Il
petto e il ventre dell'uccello assumono la forma della testa della
divinità. L'uccello tiene un pesce nel becco. I corsi d'acqua su
entrambi i lati suggeriscono l'habitat naturale dell'animale.
La
scultura è un'opera del regno di UAXACLAJUUN UB'AAH K'AWIIL, che governò
COPAN dal 695 al 738 d.C. Si ritiene che abbia adornato una versione
precedente del TEMPIO 22.
Esposta presso il Museo de Escultura in loco.
FOTO 5:
CORMORANO
COMUNE (Phalacrocorax carbo; Linnaeus 1758): uccello acquatico diffuso
in Eurasia, America Centrale e Settentrionale, Africa, Australia. Si
ciba di numerose varietà di pesci.
Figura
di oratore, terracotta, altezza: 22 cm.; datazione: circa 600 d.C.,
proveniente dalla necropoli maya dell'Isola di Jaina, stato del
Campeche, Messico.
Questo piccolo capolavoro vuole forse
raffigurare un oratore, importante per età e prestigio, , nell'atto di
arringare e controllare un immaginario uditorio. Da notare
l'abbigliamento, l'acconciatura del capo, il pettorale, che sono ricchi e
complessi; inoltre le guance e il mento sono ricoperti da una specie di
maschera. Sulla testa vi è una grande cresta che forse, unita alla
maschera sotto il mento, vuole raffigurare il serpente piumato della
mitologia maya: Kukulkan (quello che poi sarà il Quetzacoatl azteco).
L'Isola
di Jaina fu abitata da 300 al 1200 d.C. Le rovine della città maya sono
costituite da due piazze e da un campo per il gioco della pelota. Nella
necropoli vi sono 20.000 tombe, delle quali solo 1000 sono state
portate alla luce. In ognuna di queste tombe vi sono riposti monili,
vasellame ed altro, oltre alle immancabili figurine in ceramica dipinta
raffiguranti i defunti in vivaci rappresentazioni delle mansioni
quotidiane di ognuno, posizionate sul petto. Molte di queste statuette
rappresentano persone anziane che emergono dalla corolla di un fiore,
come augurio ed emblema di rinascita. Grande rilevanza nei manufatti
aveva il colore detto "Blu Maya", ottenuto da palygorskite (minerale
argilloso) e indaco (pigmento di origine vegetale, conosciuto in Asia
già 3000 anni fa).
Recipiente
cilindrico in terracotta, alto 115,5 cm., dalla città maya di Palenque,
datata da 200 al 600 d.C., Stato del Chiapas, Messico.
Queste
terrecotte cave di forma tubolare, usate probabilmente nei riti
funerari, sono di solito riccamente decorate con motivi in rilievo di
significato simbolico; della vivace policromia di cui erano
originariamente ornate rimangono poche tracce, fra le quali spicca
l'azzurro turchese. Il grande volto al centro, dotato di enormi occhi
vuoti, labbra aperte e tratti naturalistici, è il dio del sole Kinich
Ahau, con l'emblema del giaguaro sul capo, di cui si distinguono le
fauci fiancheggiate da un motivo a spirale. Sulla testa del giaguaro si
nota, in altorilievo, un'aquila con ali aperte (anch'essa simbolo
solare), di piccole dimensioni, posta sopra una corona con diadema a
forma di maschera.
Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messico.
Presso
le civiltà dell'America Centrale, gli eventi ciclici indicati da
calendario agricolo, gli eventi politici o le celebrazioni mitiche
venivano festeggiate con esibizioni acrobatiche, in cui i ginnasti
ostentavano le proprie capacità in complicati esercizi di contorsionismo
ed equilibrismo, mediante i quali il pubblico poteva intuire la
manifestazione delle forze divine nella sfera umana.
Al di là
dell'intrattenimento, questi spettacoli avevano un profondo valore
simbolico, dove la massa fisica del corpo umano riusciva a raggiungere
la dimensione del sovrumano, mediante contorsioni innaturali, la sfida
alla forza di gravità, il superamento della paura, ecc...E durante
l'esibizione, gli acrobati erano davvero visti dal popolo come fossero
Dèi. Questi soggetti (raffigurati come contorsionisti adulti ma, spesso,
anche bambini) sono ritratti sia come statuette di terracotta, a
partire da quelle più antiche della civiltà Olmeca, che come disegni
dipinti sui Codici maya dei secoli precedenti la conquista spagnola.
Tutto
ciò indica che le esibizioni acrobatiche non avevano solo funzione
ludica, ma avevano un significato soprattutto rituale. Con questo
s'intende quel gioco, gioia e risate che sono state le forze trainanti
nella creazione dell'universo nella visione religiosa delle culture
precolombiane. Nella loro natura poliedrica, gli Dei creatori erano
burloni e imbroglioni; quindi, l'universo è semplicemente la
cristallizzazione di risate divine, rumorose e caotiche. La vita è uno
scherzo, e dobbiamo sopportarlo come tale durante l'esecuzione dei
nostri ruoli nella fase cosmica: così suggerisce il paradigma delle
civiltà precolombiane.
Identico significato si ritrova nella
figura del Sacro Clown (Heyoka) nella tradizione Sioux delle Grandi
Pianure del Nord America: personaggio il cui comportamento comico
capovolgeva ogni logica, costringendo gli spettatori a porsi domande e a
mettere in dubbio le proprie radicate convinzioni, ridicolizzandole,
appunto. Il Clown dei Nativi Americani era l'esatta traduzione del
Giullare di Corte medievale, che si esibiva nelle piazze e nei castelli.
Un altro esempio di "capovolgimento" simbolico della realtà, sono i
papiri satirici egizi, in cui il gatto è costretto a servire il topo che
si è fatto Re.
Questa sdrammatizzazione ed elogio della follia,
si pone in contrasto con la valutazione assolutamente seria e severa
della realtà nella visione giudaico-cristiana del Cosmo, in cui la
manifestazione dell'anormale non è tollerata. Leggiamo, infatti
nell'Ecclesiaste 7:3-4:
"Il dolore è meglio del riso: perché
dalla tristezza del volto il cuore è reso migliore. Il cuore del saggio è
nella casa del pianto; ma il cuore degli stolti è nella casa
dell'allegria".
Contrariamente alle credenze giudeo-cristiane in
cui l'azione benevola di Dio crea il mondo e la sua ira lo distrugge e
lo punisce, in Mesoamerica, la risata degli Dei detiene entrambi i
poteri, di rinnovamento e di distruzione. Possiamo considerarle due
prospettive diverse della medesima struttura inconscia universale, che
viene di volta in volta contorta, capovolta, verticalizzata e modificata
in innumerevoli modi, come i corpi dei ginnasti, secondo uno schema
olistico e secondo le esigenze culturali dei popoli e delle epoche
storiche.
Se le divinità mesoamericane danzano e cantano come
parte della loro divinità ontologica, anche i loro adoratori balleranno e
canteranno per loro. Gli dei stessi si sarebbero manifestati alle
popolazioni indigene attraverso i corpi di ballerini particolarmente
bravi e le voci di cantanti dotati. La danza è movimento, e attraverso
passi e pause, anche il corpo può creare la musica, la bellezza e
l'armonia che sottendono l'Universo.
Figura infantile seduta/ Civiltà Olmeca/ XII secolo a.C./ Misure: 34 x 31.8 x 14.6 cm./ Materiale: ceramica cava/ Scoperta all'interno di una tomba nel sito dell'altopiano centrale di Las Bocas, nello stato di Puebla, Messico, all'ombra del vulcano Popocatepetl, dove sono stati trovati numerosi oggetti in ceramica di manifattura olmeca.
La civiltà Olmeca è considerata matrice delle culture successive, come la civiltà Maya; si formò e dominò nel Messico centro-meridionale tra il 1200 e il 400 a.C. Circa un secolo dopo l'abbandono delle ultime città olmeche, le altre culture si erano già saldamente insediate in quell'area, come quella maya nella penisola dello Yucatàn.
Questa figura seduta rappresenta un bambino che guarda verso l'alto e porta la mano destra alla bocca. L'artista ha lavorato in una fine argilla bianca per produrre una figura cava, successivamente decorata con una barbottina bianca e pigmento rosso. Queste figure, probabilmente allegoriche, di bambini sono generalmente posizionate a gambe divaricate, ma senza alcuna definizione dei genitali, come immagine asessuata. Con le mani sulle cosce, la figura ha la postura, le proporzioni del corpo e la carnosità di un bambino umano, sebbene i disegni simbolici che ne adornano il corpo e un caratteristico copricapo lo distinguano da un semplice mortale.
In realtà, come ipotizzano alcuni, si potrebbe trattare di figure infantili immaginate come manifestazioni di forze soprannaturali, come i putti dell'arte classica greco-romana. I bambini in terracotta olmechi, infatti, sono ritratti in atteggiamenti evocativi e simbolici, come trasformazioni sciamaniche, contorsioni ginniche, con braccia aperte in un gesto declamante, oppure come figure supplichevoli con mano tesa e sguardo rivolto al cielo. Questi fanciulli, come i putti dell'arte classica, sono solitamente modellati come figure pingui, floride, con le pieghe del grasso rese con accuratezza, i volti paffuti. La testa mostra la tradizionale deformazione del cranio allo scopo di renderlo dolicocefalo (antica pratica comune a molte culture in tutto il mondo). I piedi aggraziati formano un tutt'uno con le gambette pingui e lisce.
Il viso mostra caratteristiche innaturali, come occhi stilizzati, bocca rivolta verso il basso e orecchie squadrate; alcune di queste figure sono a volte addirittura prive di orecchi. La parte sinistra del dorso della figura contiene elementi simbolici, come bande e tratteggi incrociati. Questo esemplare si distingue per l'elaborato copricapo colorato di rosso-rosa, ottenuto con polvere di cinabro e ocra rossa, probabilmente utilizzato per cospargere la tomba in cui era deposta questa figura.
Molte teorie sono emerse fra gli studiosi circa il significato di queste figure: ritratti di bambini di nobile stirpe; ritratti infantilizzati di personaggi reali; personificazioni di divinità o esseri mitologici. Potrebbero, altresì, essere memoriali di bambini che hanno lasciato questo mondo troppo presto, o emblemi rappresentativi di interi lignaggi, come altre correnti di pensiero suppongono.
Affreschi
dal "Tempio delle pitture" della città Maya di Bonampak ("boon-ah-pak",
che significa "muro dipinto" in antica lingua maya), risalenti al 580
d.C. circa, pieno periodo classico di questa civiltà, situato in
Messico, nello stato del Chiapas, nel territorio della foresta del
popolo Lacandon. La scoperta di questo sito, avvenuta nel 1946, è
alquanto romanzesca, così descritta nel libro "Città Maya" di Pierre
Ivanoff:
LA SCOPERTA
"Siamo nel 1946. Un disertore
americano obiettore di coscienza, Carlos Frey, vive da due anni come un
uomo della preistoria nelle foreste del Chiapas. Si è integrato in un
gruppo di Indios Lacandon, tra i quali ha anche preso moglie. A più
riprese ha notato che gli uomini del suo gruppo si sono assentati per
vari giorni, dopo aver macchiato le lunghe tuniche di punti rossi ed
essersi caricati di provviste d'incenso di copale. Ignora la costumanza
dei Lacandon che consiste nel recarsi ogni anno, a una data fissa, per
l'esattezza alla fine di febbraio, in pellegrinaggio in luoghi tenuti
rigorosamente segreti. Ciascun gruppo possiede un angolo tutto suo,
ignorato dalle donne, una località misteriosa, dominio riservato a
Kananka, il dio della foresta. E' vieteto penetrarvi recando oggetti
taglienti, ovvero in compagnia di un forestiero. Carlos Frey è lungi dal
pensare che quella piccola parte di foresta sacra è scelta in funzione
delle rovine che vi sussistono, gloriose vestigia degli antenati e
rifugio degli dei. Dinanzi alla sua ostinazione a voler partecipare al
pellegrinaggio , gli uomini del gruppo decidono di condurre una volta
con loro Carlos Frey. Dopotutto, non è anch'egli un Lacandon, dal
momento che ha preso in moglie una delle loro donne? Giunto nei luoghi
sacri, Carlos Frey nota stupefatto che i riti d'offerta del copale si
svolgono in un tempio in rovina. Immediatamente dimentica i moventi del
suo esilio volontario e fa ritorno alla civiltà. Mette a parte della sua
scoperta coloro che incontra, ma in effetti nessuno si interessa al suo
racconto. Due mesi dopo, un esploratore a caccia d'immagini, Gilles
Healey, nel corso delle riprese di un documentario sui Lacandon, scopre a
sua volta la città in rovina. Healey non teme l'avventura, mostra
interesse per la civiltà Maya e una grande curiosità per l'arte. Penetra
nel tempio visitato da Frey qualche settimana prima. Ritto
nell'oscurità, esamina a lungo, da intenditore, l'interno del santuario
abbandonato. Chissà che non vi si trovi una bella modellatura a stucco?
All'improvviso lo assale una forte emozione. Il fascio di luce della
lampada si sofferma su una parete. Possibile...? Sì! Affreschi colorati e
splendidi traspaiono da sotto il lieve strato di deposito calcareo.
Healey si avvicina: non c'è dubbio, tutta la superficie interna della
sala è dipinta a enormi affreschi. Anche le altre due sale del tempio.
E' quasi inconcepibile. Gli archeologi sapevano, certo, da certe modeste
tracce di pittura rilevate a Palenque e Yaxchilàn, che l'interno dei
templi era dipinto; negli scavi di Uaxactùn era stato trovato qualche
frammento di affresco. Ma il fatto di scoprire tutta una seria di
pitture muraali nella loro integrità, in un tempio sconosciuto, anodino,
in fondo alla foresta del Chiapas, aveva del miracoloso".
LA CONSERVAZIONE
"L'alto
tasso di umidità della regione spiega la miracolosa conservazione degli
affreschi. Per più di mille anni il tempio ha subito infiltrazioni
d'acqua che hanno interamente ricoperto di uno strato protettore di
calcare le mirabili pitture murali. Se, nelle stesse condizioni
climatiche, il tempio si fosse trovato in un luogo accessibilee,
conosciuto, si sarebbero indubbiamente deteriorte al pari di numerosi
affreschi precolombiani. L'umidità, l'isolamento della foresta vergine,
il rispetto sacrale dei Lacandon hanno miracolosamente conservato questi
capolavori.....Il tempio degli affreschi (altezza 7 metri, larghezza
4,12 metri, lunghezza 16,55 metri) è costruito sulla prima piattaforma
costruita sulla collina. La sua facciata, suddivisa da un cornicione, è
perforata nellaa parte superiore da tre nicchie, nelle quali si
discernono ancora resti di statue a stucco. Nella parte in inferiore,
sotto il cornicione, tre porte basse, in corrispondenza delle tre
nicchie, danno accesso alle tre stanze decorate del tempio. Il complesso
è ingannevole: nessuno sospetterebbe che questa costruzione
insignicante celi i capolavori pittorici dell'arte precolombiana".
STRANO DESTINO DI CARLOS FREY
"A
prezzo di mille difficoltà tecniche, Healy scatta un gran numero di
fotografie e fa ritorno alla civiltà. I documenti che porta con sè hanno
l'effetto di una bomba. Numerose spedizioni vengono inviate a Bonampak,
per tentare di strappare ai muri dipinti il loro messaggio. In certi
punti, il calcare cela quasi del tutto gli affreschi ed è necessario
imbeverlo di petrolio per renderlo trasparente e poter così fotografare
le pitture. Pittori specializzati sono venuti a riprodurre in scala
tutti i dipinti. Carlos Frey è a capo di una di queste spedizioni, ma
purtroppo annega nel fiume Lacanja prima di giungere alla meta.
Ciononostante i tentativi proseguono, e Bonampak entra definitivamente
nella storia dell'arte e della civiltà".
IL TEMPIO DEGLI AFFRESCHI
"Il
Tempio degli Affreschi (altezza metri 7, larghezza metri 4,12,
lunghezza metri 16,55) è costruito sulla prima piattaforma sistemata
sulla collina. La sua facciata, suddivisa da un cornicione, è perforata
nella parte superiore da tre nicchie, nelle quali si discernono ancora i
resti di statue a stucco. Nella parte inferiore, sotto il cornicione,
tre porte basse, in corrispondenza delle tre nicchie, danno accesso alle
tre stanze decorate del tempio. Il complesso è ingannevole, nessuno
immaginerebbe che questa costruzione insignificante celi i capolavori
pittorici dell'arte precolombiana".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori)
"LACANDON": discendenti degli antichi Maya
I "Lacandon" (o “hach winik” che significa “Veri Uomini” in lingua Maya-yucateca) sono un popolo indio discendente diretto degli antichi Maya, presente nelle profonde foreste dello stato del Chiapas, Messico, precisamente nella zona conosciuta come "Selva Lacandona". Vivono di caccia, pesca e agricoltura.
I Lacandon sono importanti perchè unica popolazione maya sfuggita alla conquista e all'Inquisizione spagnola; ritiratisi nelle profonde ed impenetrabili foreste fra Messicco e Guatemala, hanno così potuto mantenere, seppur in forma decadente, molti aspetti della propria cultura, trasmettendo di generazione in generazione le antiche conoscenze iniziatiche e continuando a parlare la lingua maya-yucateca. Fino alla metà del secolo scorso hanno venerato le antiche divinità dei loro antenati fondatori della civiltà Maya, frequentando annualmente le rovine dei templi per celebrarvi rituali e cerimonie segrete. Si vestono tradizionalmente con ampie tuniche bianche. Oggi sono ridotti ad appena 400 persone.
"Lacanjá Chansayab", nella selva del Chiapas, è la più grande comunità maya lacandona, si trova a 12 km da Bonampak. Questi luoghi sono ricchi di biodiversità, intervallati da cascate, come la "Cascada Ya Toch Kusam", alta 8 m e larga 30 m., dai ruscelli e dal fiume Lacanjá che scorre attraverso le valli erbose.
Nella cultura tradizionale dei Lacandon vengono adorate le divinità Sole e Luna, più altre divinità secondarie connesse all'acqua, alle piante e agli elementi naturali. Il rispetto sacrale per l'ambiente naturale è il principio fondamentale del loro stile di vita al fine di evitare infermità e disastri. Nei rituali è centrale l'uso dell'incenso.
Uomini
Lacandon presso le rovine dei templi Maya, dove si recano annualmente
in pellegrinaggio per compiere segreti rituali e cerimonie.
"LACANDON": discendenti degli antichi Maya
I
"Lacandon" (o “hach winik” che significa “Veri Uomini” in lingua
Maya-yucateca) sono un popolo indio discendente diretto degli antichi
Maya, presente nelle profonde foreste dello stato del Chiapas, Messico,
precisamente nella zona conosciuta come "Selva Lacandona". Vivono di
caccia, pesca e agricoltura.
I Lacandon sono importanti perchè
unica popolazione maya sfuggita alla conquista e all'Inquisizione
spagnola; ritiratisi nelle profonde ed impenetrabili foreste fra
Messicco e Guatemala, hanno così potuto mantenere, seppur in forma
decadente, molti aspetti della propria cultura, trasmettendo di
generazione in generazione le antiche conoscenze iniziatiche e
continuando a parlare la lingua maya-yucateca. Fino alla metà del secolo
scorso hanno venerato le antiche divinità dei loro antenati fondatori
della civiltà Maya, frequentando annualmente le rovine dei templi per
celebrarvi rituali e cerimonie segrete. Si vestono tradizionalmente con
ampie tuniche bianche. Oggi sono ridotti ad appena 400 persone.
"Lacanjá
Chansayab", nella selva del Chiapas, è la più grande comunità maya
lacandona, si trova a 12 km da Bonampak. Questi luoghi sono ricchi di
biodiversità, intervallati da cascate, come la "Cascada Ya Toch Kusam",
alta 8 m e larga 30 m., dai ruscelli e dal fiume Lacanjá che scorre
attraverso le valli erbose.
Nella cultura tradizionale dei
Lacandon vengono adorate le divinità Sole e Luna, più altre divinità
secondarie connesse all'acqua, alle piante e agli elementi naturali. Il
rispetto sacrale per l'ambiente naturale è il principio fondamentale del
loro stile di vita al fine di evitare infermità e disastri. Nei rituali
è centrale l'uso dell'incenso.
"Atlanti
di Tula", capitale del regno dei Toltechi dal 600 al 900 d.C.; penisola
dello Yucatàn, Stato di Hidalgo; Messico: le 4 statue sono alte 4,60
metri; pesano 8 tonnellate; sono state scoperte nel 1940 dall'archeologo
messicano Jorge Ruffier Acosta ; così denominati perchè reggevano il
tetto del Tempio in cima alla piramide di Tlahuizcalpantecutli ("Signore
della Stella dell'Aurora"; personificazione della Stella del Mattino,
cioè il pianeta di Venere come appare al mattino), come il personaggio
mitologico Atlante che regge il mondo sulle spalle. Il Tempio è dedicato
al culto di Quetzacoatl, il Serpente Piumato, di cui la Stella del
Mattino è una delle manifestazioni. Rimane un mistero come abbiano
potuto essere trasportate queste gigantesche statue sulla cima della
piramide, alta 43 metri.
Le statue sono costituite da quattro
pezzi che sono stati scolpiti separatamente e poi assemblati uno
sull'altro. Dal basso verso l'alto, i pezzi che compongono gli Atlanti
di Tula sono:
Le gambe.
La parte inferiore del busto.
La parte superiore del busto.
La testa e il copricapo.
Nella testa, le figure hanno un copricapo di piume e pelle di serpente, a indicare il dio Quetzacoatl.
Il
volto è formato da occhi con orbite vuote, naso e bocca semiaperta,
come se i personaggi divini stessero parlando, comunicando al visitatore
la loro conoscenza ancestrale.
Hanno l'aspetto di guerrieri per i
vestiti che indossano. Sono vestiti con una corazza a forma di farfalla
(decorazione tipicamente tolteca). Nella mano destra hanno un'arma che
ricorda una lancia, mentre nella mano sinistra hanno le borse:
l'universale e misterioso simbolo della "Borsa degli Dei". Sul retro
hanno uno scudo con il sigillo del Sole.
Vengono datati a circa il 900 d.C., tempo in cui la città era al suo massimo splendore.
Pietra-altare con il dio della morte Ah-Puch (largo 2 metri; VIII secolo d.C.), davanti alla Stele A del Re Uaxaclajuun Ub'aah K'awii, città Maya di Copàn, Honduras, scoperta nel 1570. Disegni ricostruttivi di Frederick Catherwood (esploratore e architetto inglese; 1799-1854).
Stele A del Re Uaxaclajuun Ub'aah K'awii, città Maya di Copàn, Honduras, scoperta nel 1570., alta 3,7 metri, VIII secolo d.C. Disegno ricostruttivo di Frederick Catherwood (esploratore e architetto inglese; 1799-1854).
CE ACATL QUETZACOATL: IL SOVRANO ILLUMINATO DEI TOLTECHI
"L'
importantissima città sacra di CHICHEN-ITZA era un tempo una delle
grandi mete di pellegrinaggio dello Yucatàn. L'etimologia di CHICHEN
ITZA ("nei pressi del pozzo degli Itza") pone l'accento su un elemento
essenziale per l'insediamento di un qualsiasi gruppo umano in terra
yucateca. In questa penisola di 150.000 chilometri quadrati, piatta,
arida e priva di corsi d'acqua, territorio delle città del nord,
esistono fortunatamente pozzi naturali, "cenotes", che perforano lo
strato calcareo fino a una vasta falda acquifera sotterranea. In
mancanza di quest'acqua, la vita non sarebbe possibile nello Yucatan.
Chichen Itza possiede due grandi pozzi, e sarà proprio dallo studio dei
monumenti del Gruppo Nord, situati tra questi due pozzi naturali, che
prenderà le mosse la nostra indagine. Per quanto riguarda l'appartenenza
etnica degli Itzà, le opinioni sono divise. Sono di origine Maya? Padre
De Landa e i libri di "Chilam Balam" ci narrano che a partire dal V
secolo un'ondata di emigranti, gli Itzà, originari delle terre Maya del
Petè, si è riversata sullo Yucatàn. Dopo un soggiorno nel nord, si
stabilirono nel Tabasco. Ora, le stesse cronache ci narrano, qualche
pagina più avanti, degli Itzà che giungono nello Yucatàn nel X secolo.
Questi ultimi provenivano da sud-ovest, vale a dire nel Tabasco. Erano i
discendenti degli Itzà di origine Maya che erano emigrati nel V secolo?
Nessuno può dirlo con certezza. Gli Itzà posero dunque la loro capitale
a Chichen Itza, durante il "Katun 4 Ahau" (968-987 d.C.). Essi erano
soggetti al grande capo tolteco Kukulcan. Il nome Kukulcan è in effetti
la semplice traduzione Maya di QUETZACOATL (Kukul: piume preziose; Can:
serpente), il SERPENTE PIUMATO, la divinità più popolare di tutto il
Messico Centrale. I resoconti di Kukulcan assumono allora una
colorazione leggendaria. A dispetto del suo carattere divino, UETZACOATL
fu anche un grande Re e un grande capo. KUKULCAN e QUETZACOATL sono
forse gli eroi di due paesi diversi? Per risolvere questo problema
abbiamo consultato le opere di W. Krickeberg e di W. Jimenez Moreno.
IL SERPENTE PIUMATO
All'arrivo degli Spagnoli, QUETZACOATL rappresentava presso gli AZTECHI il
Dio
del Vento. Simboleggiava anche l'acqua e la fertilità e, per
estensione, la pioggia e la vegetazione o persino il manto verde della
natura che si desta in primavera. Sedeva al primo posto nel pantheon di
Teotihuacan, la grande città teocratica del Messico centrale, assai
prima che si verificassero le invasioni dei Toltechi e degli Aztechi.
Alla fine del secolo VIII, quando le tribù tolteche di lingua nahua,
specialiste nei sacrifici umani, s'infiltrano nel territorio di
Teotihuacàn e distruggono la città, adottano, secondo le loro
tradizioni, il SERPENTE PIUMATO, cui danno il nome in lingua nahua di
QUETZACOATL (Quetzal: piume preziose; Coatl: serpente). Il SERPENTE
PIUMATO si diffuse in tutto il Messico sulla scia dei feroci
conquistatori. Col suo potere essenziale benefico di portatore di
piogge, divenne ben presto la divinità tolteca predominante, al punto
che il suo solo nome si rivestì di virtù magiche e finì col diventare il
titolo supremo dei re-sacerdoti di quel popolo.
CADUTA, ESILIO E MORTE DI RE QUETZACOATL
Quando
i guerrieri Aztechi, al pari di lingua nahua, dilagarono a loro volta
sugli altipiani a partire dal XIII secolo, raccolsero e assimilarono le
tradizioni, le leggende e le gesta storiche dei cugini toltechi. Dalle
loro cronache apprendiamo che il quinto sovrano tolteco, QUETZACOATL,
visse 52 anni, dal 947 al 999 d.C. In realtà si chiamava CE-ACATL
(Uno-Canna) dal nome dell'anno di nascita; ricevette il titolo di
QUETZACOATL quando venne eletto re-sacerdote di TOLLAN, alla morte del
padre. QUETZACOATL era un uomo di grande bruttezza: portava laa barba!
Ma era casto, pio, giusto e benevolo. Fu un grande realizzatore. Con lui
ha inizio l'età d'oro dei Toltechi. Troppo breve, purtroppo; perchè il
sovrano di Tollan commise un grave errore. Avendo tentato di abolire i
sacrifici umani per sostituirli con offerte di fiori, incenso, farfalle e
pane di mais, si fece numerosi nemici, particolarmente fra i capi
guerrieri. Questi ultimi moltiplicarono le occasioni per far cadere in
errore e in peccato il loro re. Impuro, diventava automaticamente
indegno del trono e poteva essere destituito. Tutti i loro tentativi
fallirono, fino al giorno in cui gli offrirono uno specchio. Spaventato
dalla propria bruttezza e dalle proprie profonde rughe, egli acconsentì a
bere un liquido ad alta grdazione alcoolica per scacciare la sgradevole
impressione. Cantò, bevve ancora, scordò ogni dignità e sprofondò in
una triste dissolutezza. L'indomani il suo cuore era gravato dalla
vergogna. Preferì perciò lasciare Tollan e prese, con il suo seguito, la
strada di Tlapollan, in direzione est. QUETZACOATL morì l'anno
"uno-canna", un anno che portava lo stesso nome di quello della sua
nascita, essendo vissuto 52 anni, vale a dire un intero ciclo di tempo.
Alla sua morte, un altro ciclo prendeva l'avvio per 52 anni; su questo
noi avremo occasione di ritornare. Il cuore di QUETZACOATL raggiunse
Venere, la STELLA DEL MATTINO, e il pianeta assunse da quel momento in
poi il nome di CE-ACATL.
L'ARRIVO DEI CONQUISTADORES E L'AUTO-INGANNO DEL RE AZTECO MONTEZUMA
Le
cronache azteche insistono molto sul fatto che il Re barbuto della
città di Tollan, ossia della regione dell'ovest, paese di colore bianco,
fuggì verso est, paese dal colore rosso e nero, al fine di prendere il
mare e perire tra le fiamme. Questi racconti precolombiani aggiungono
che QUETZACOATL aveva dichiarato, prima della partenza, che sarebbe
tornato da est per mare a restaurare il suo regno tolteco. Questa
predizione avrebbe notevolmente semplificato il compito di Cortès al suo
arrivo in terra azteca. L'imperatore Montezuma immaginò che la vecchia
profezia si trducesse in realtà. Tutto concordava: lo straniero portava
la barba, era bianco (colore simbolico dell'ovest, e quindi di
QUETZACOATL), e giungeva da est, per mare, nell'anno "uno-canna"! Così,
anzichè schiacciare lo spagnolo appena sbarcato con le centinaia di
migliaia di soldati di cui disponeva, si affrettò a fare offerte agli
dèi e doni a Cortès. Tra questi doni c'era la sontuosa acconciatura di
piume di quetzal che era appartenuta, stando alla trdizione, a
QUETZACOATL stesso. In tal modo Montezuma consegnò l'impero azteco agli
spagnoli.
TRA MITO E REALTA'
Il resoconto datato, ma
semileggendario, del SERPENTE PIUMATO, è in stretto rapporto con
Chichen-Itzà. Conferma i fatti esposti da padre De Landa e dal "Libri di
Chilam-Balam". Raffrontiamoli ancora una volta. Fonti maya: : Kukulcan
arriva a Chichen-Itza tra il 967 e il 987; fonti azteche: QUETZACOATL
s'insedia sul trono di Tollan nel 977, poi abbandona il paese, si dirige
verso est e muore nel 999. Per la prima volta nella storia
centro-americana, i dati di due fonti diverse si incontrano e concordano
cronologicamente. E' un'enorme soddisfazione per lo storico. Ma fin
dove giunge la realtà? Qual'è la parte di immaginazione nei resoconti
che riguardano i due personaggi? O si tratta di un unico personaggio?
L'intuizione geniale di un grande viaggiatore del secolo scorso, gli
immensi scavi archeologici a Chichen-Itza e gli stessi monumenti della
città ci consentiranno di isolare la realtà storica di questo
pseudo-mito.
IDENTIFICAZIONE DI TOLLAN (Capitale dei Toltechi) CON LA CITTA' DI TULA, NELLO STATO DI HIDALGO, MESSICO
Attraverso
le cronache azteche Tollan appariva come un paese leggendario, riflesso
di una certa età dell'oro. Ancora nel 1863, quando Desiré Charnay,
grande viaggiatore francese, asserisce di aver localizzato la mitica
Tollan presso il villaggio di Tula, a nord-ovest della città del
Messico, gli storici e l'opinione pubblica annettono scarsa importanza a
tali dichiarazioni. Quando lo stesso autore sostiene che Chichen-Itza è
creazione dei toltechi e che è una copia grandiosa della città di
Tollan, o Tula, tutti continuano a non prenderlo sul serio. Occorre
tuttavia aggiungere a loro discolpa che Desiré Charnay vedevaa vestigia
tolteche in tutti i luoghi che visitava. Eppure la relazione che aveva
stabilito tra le due città non rimaneva allo stadio dell'ipotesi, dal
momento che aveva eseguito sondaggi rivelatori in entrambi i siti. Lo
studioso tedesco E. Seler è l'unico a condividerne lopinione , nel 1895.
E' nel 1925 che hanno inizio gli scavi di Chichen-Itza sotto gli
auspici della Carnegie Institution di Washington e della Direzione di
Antropologia Messicana. Dureranno 17 anni, sotto la guida di S. G.
Morley. Per Tula, bisognerà attendere gli eccellenti lavori di W.
Jimenez Moreno, dopo serie ricerche e grazie soprattutto alla scoperta
di un'antica mappa, Jimenez Moreno fornì le prove che Tollan, la
capitale dei Toltechi, non era Teotihuacan, come ancora si riteneva nel
1939, bensì Tula, nello stato di Hidalgo, fondata e abitata dai
toltechi, costruttori d'ingegno. Soltanto nel 1940, sessantacinque anni
dopo le affermazioni di Desiré Charnay, i primi scavi affidati alla
Scuola Messicana, sono intrapresi a Tula: architetturaa, scultura,
tecnica, soggetti trattati, tutto conferma la stretta parentela delle
due città. Desiré Charnay aveva ragione. Ad onta dei milleduecento
chilometri che le separano, Tula e Chichen-Itza sono costruite sotto la
direzione di uno stesso capo, il grande Re tolteco di Tula: CE-ACATL,
QUETZACOATL, il SERPENTE PIUMATO divenuto KUKULCAN quando si insediò
nello Yucatàn".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori; pag. 90, 91, 95)
LE PRINCIPALI FONTI CHE NARRANO LA STORIA DI RE "CE-ACATL QUETZACOATL":
Codex
Chimalpopoca o Códice Chimalpopoca è un codice cartografico azteco
post-conquista che è ufficialmente elencato nella collezione
dell'Instituto Nacional de Antropología e Historia situato a Città del
Messico sotto la "Collección Antiguo n. 159". È meglio conosciuto per le
sue storie del dio-eroe Quetzalcoatl, risale al XVI secolo.
Il
Codex Tovar è un manoscritto storico mesoamericano della fine del XVI
secolo scritto dal gesuita Juan de Tovar e illustrato da pittori
aztechi, intitolato "Historia de la benida de los Yndios a poblar a
Mexico".
Il cosiddetto Codice Fiorentino è l'ultima redazione,
l'unica bilingue, della "Historia universal de las cosas de Nueva
España", scritta da frate Bernardino de Sahagún (1783-1786).
"Il Grande Giaguaro che sorge": così denominata questa statua in stucco lunga 3 metri, datata 250 d.C., scoperta nel 1990 nei pressi del lago Peten-Itzà, in Guatemala, custodita al Royal British Columbia Museum. Si ritiene possa raffigurare un guerriero che assume lo spirito e la potenza del Giaguaro nell'atto di alzarsi. Il personaggio è abbigliato sontuosamente. Il Giaguaro, denominato Balaam, o anche Chaac, nella cultura Maya era simbolo di regalità e trascendenza; le sue sembianze erano attributi di molte importanti divinità del pantheon precolombiano; questo felino era legato a tutto ciò che riguarda il mistero e l'occulto. Era anche un simbolo degli Inferi, perché durante la notte il dio Sole si trasformava in Giaguaro ed avanzava nelle tenebre del mondo dei morti; dunque il Giaguaro è da considerare un elemento conciliatore, un mediatore fra il giorno e la notte, le tenebre e la luce. E' spesso raffigurato nell'arte Maya nell'atto di divorare un cuore umano: emblema di assimilazione e di trasformazione delle forze, delle energie cosmiche e dell'anima umana durante il viaggio nell'oltretomba; in questo caso evoca il potere della resurrezione.
Questa maschera di pietra dalle sfumature verdastre da collezione privata è attribuita a popolazioni appartenenti ad estreme propaggini dell'antica cultura olmeca nell'Istmo de Tehuantepec, la più grande regione dello stato di Oaxaca, Messico. Gli Olmechi costituirono la prima civiltà mesoamericana e stabilirono le fondamenta delle culture successive, fiorirono dal 1.400 al 400 a.C. L'importanza di questa maschera è dovuta al fatto che sul suo retro è incisa con una forma di scrittura post-olmeca e pre-maya, detta "scrittura-istmica", in uso già dal 600-900 a.C. La maschera, probabilmente ad uso rituale, di dimensioni anatomiche naturali, risale ad un periodo successivo al 500 a.C., quando nel luogo si insediarono diversi popoli che gettarono le basi per la successiva cultura Maya. Non si conoscono il luogo e le circostanze del ritrovamento, prima che la maschera finisse in una collezione privata. Il personaggio menzionato sul suo retro, il sovrano Ngbe Po di Ahuelican (oggi San Miguel Ahuelican, Messico, nella regione di Guerrero, provincia di Ahuacuotzingo), viene menzionato su altri due manufatti risalenti ad un periodo precedente. La maschera, nello stile di Teotihuacan, rinvenuta in una località sconosciuta nel sud del Messico, aggiunge circa 101 glifi al numero totale attualmente noto per l'antica scrittura istmica. Di questi, venticinque sono aggiunte uniche al corpus istmico, secondo l'archeologo della Brigham Young University Stephen Houston e il professore emerito della Yale University Michael Coe. La traduzione del testo, a cura dell'antropologo Dr. Clyde A. Winters, menziona le virtù spirituali del Re, la serenità della sua dimora, paragonandolo allo spirito del Giaguaro, signore della foresta.
Calendario Maya di pietra (Museo di Antropologia-Città del Messico) datato circa VIII sec. d.C.; informazioni sulle misure dell'oggetto non trovate.
LA SCOMPARSA DEI MAYA E LA TEORIA DELL'OSSESSIONE MAGICA DEL CONTROLLO DELL'UNIVERSO
"Sono
state avanzate numerose ipotesi per tentare di spiegare il fenomeno del
crollo e della brusca scomparsa della civiltà classica dei Maya.
Sylvanus Griswold Morley, il maggiore specialista in materia, rifiuta le
cause belliche e le lotte intestine. In compenso, ammette il fallimento
del sistema agricolo che avrebbe comportato la decadenza e poi
l'abbandono delle città maya. Ma Quiriguà, come abbiamo visto, grazie al
suo humus generoso di vari metri di spessore, al regime delle piogge,
al clima tropicale e alle inondazioni fertilizzanti, avrebbe potuto
nutrire, per secoli ancora, decine di migliaia di individui. Ora,
Quiriguà fu la prima città maya classica ad essere abbandonata dai suoi
abitanti. E per quel che riguarda le altre ipotesi? I terremoti? Nessuna
città in rovina mostra le tracce di un tale cataclisma. I secoli, le
intemperie, , la foresta invadente, la fragilità di certi materiali sono
responsabili del crollo di certi monumenti. Inesistenti nel Petèn, i
terremoti sono violenti e frequenti sugli altipiani del Guatemala. Ora,
gli Indios di queste regioni non hanno mai abbandonato questi territori.
Del resto, nessuna regione al mondo è mai stata disertata
definitivamente dai suoi abitanti per motivi di questo genere. L'ipotesi
di un cambiamento climatico, avanzata in seguito ad uno studio
pluviometrico della California, è stata abbandonata quasi subito. Si è
dimostrato inoltre che un aumento eccessivo delle piogge avrebbe
favorito l'agricoltura più di quanto l'avrebbe ostacolata, mentre una
diminuzione non avrebbe arrecato mutamenti. Ne abbiamo esempi viventi
nelle regioni vicine del Petèn. Quanto all'ipotesi di epidemie ripetute
di malaria o di febbre gialla che avrebbe spopolato i territori maya,
bisogna respingerla senza appello. Nè la malaria, malattia del Vecchio
Mondo, nè la febbre gialla, di origine africana, esistevano in America
prima della conquista degli Spagnoli. Del resto, maai un'epidemia, fosse
pure la terribile peste che devastò l'Europa, ha comportato il crollo
di una civiltà. Inoltre, sembra impossibile spiegare un'epidemia
rigidamente localizzata nel Petèn e che non abbia neppure sfiorato le
regioni limitrofe......"
L'OSSESSIONE DEL TEMPO
"Dal canto
nostro, abbiamo trovato una spiegazione logica nel fenomeno che ha
orientato e dominato la vita dei Maya dell'era classica: il TEMPO. La
nostra ipotesi, avanzata nell'opera "Découvertes chez les Mayas", è la
seguente: elaborando un mostruoso, complesso calendario al fine di
imprigionare il tempo, i sacerdoti-astronimi maya hanno probabilmente
creduto di possedere la chiave dell'universo. Hanno avuto l'inebriante
impressione di essere i padroni del mondo. Hanno imposto le leggi del
Tempo all'organizzazione sociale, creando l'aritmetica, le belle arti,
l'astronimia, la scrittura, al solo scopo di meglio servire il Tempo:
scienze riservate a un'élite, che ne rafforzavano il potere. Ora, si dà
il caso che tali stregoni siano stati vittime della macchina infernale
che portava in sè il proprio potere di distruzione. Nel X secolo essa
annunciò loro la fine prossima del Quarto Mondo e quindi del genere
umano. La tradizione orale, le leggende, certi scritti degli Indios
dello Yucatàn, ci dicono che gli antenati dei Maya attuali ritenevano di
vivere nel Quarto Mondo e che quest'ultimo era destinato a sparire un
giorno, per lasciare il posto al Quinto Mondo, privo di uomini. Ora,
ricostruendo tutti i mostruosi ingranaggi del calendario Maya, abbiamo
constatato che l'ultima sequenza temporale del Quarto Mondo,
annunciatrice della fine del genere umano, si situava, nella nostra
cronologia, nel X secolo. Fuggendo dalla terra sacra dove avevano
vissuto per lunghi secoli, abbandonando alla giungla divorante i loro
templi e palazzi, i Maya avrebbero attuato una sorta di fine del mondo
volontaria e oltremodo artificiale. Ma in tal modo si sarebbero
sottratti all'inesorabile annientamento predetto dal loro straordinario
computo del Tempo".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori; pag.54-55)
LA PIRAMIDE-CALENDARIO DI KUKULKAN A CHICHEN-ITZA
La
Piramide di Kukulkàn nella città Maya di Chichén Itzá, Stato dello
Yucatàn, Messico; VI-XI secolo d.C.; alta 24 metri; 55 metri di lato. Le
terrazze simboleggiano i 9 mondi sotterranei. Alla sommità il tempio:
costruzione di 6 metri di lunghezza, 4,50 di larghezza. Il sito è stato
scoperto nel 1843 dall'esploratore e scrittore statunitense John Lloyd
Stephens. La piramide di Kukulcàn (il Serpente Piumato, equivalente
all'azteco Quetzacoatl, simbolo di elevazione), non è soltanto un
prodigio architettonico, ma fu concepita come un vero e proprio
gigantesco calendario. Le sue 4 facce indicano le stagioni; i 18
terrazzamenti (sommando i 9 gradoni da una parte e dall'altra della
gradinata centrale) i mesi corrispondenti del calendario Maya. I 9
livelli dei terrazzamenti singoli simboleggiano i rispettivi mondi
sotterranei. I 52 riquadri sulla facciata il numero degli anni con cui
si concludeva un secolo nel calendario Maya, considerato come la
conclusione di un intero ciclo. Inoltre, 365 gradini in totale
compongono le 4 gradinate, esattamente come il totale dei giorni del
calendario Maya. Tuttavia, soltanto su una delle 4 facce della piramide
si trovano le effigi del Serpente Piumato: infatti due volte l'anno, su
questo lato, agli Equinozi di primavera e autunno, la sua ombra viene
proiettata creando l'illusione che il Serpente Sacro scenda dalla
piramide.
CHACMOOL: LA MISTERIOSA ENTITA' TOLTECA
"Chac-mool":
così è stata denominata questa enigmatica scultura in pietra di
personaggio sdraiato con il viso rivolto all'osservatore, le gambe
raccolte, copricapo che sembra riprodurre le squame di un serpente e un
contenitore circolare sul ventre. E' di fattura tolteca, testimonianza
dell'incontro fra due culture: la civiltà Maya e i Toltechi. Datata al X
secolo d.C. Misura circa 1 metro e mezzo di lunghezza. Questa
raffigurazione è tipica delle aree delle città Maya di Chichen Itza e
Tula, dove se ne sono scoperte 14, ma anche Hidalgo e Città del Messico.
La prima di queste sculture (nella foto) è stata scoperta a Chichen
Itza nel 1875 dall'esploratore Auguste Le Plongeon, un antiquario
americano di origine francese, il quale la battezzò come "Chac-mool",
che in lingua maya significa "Giaguaro rosso" e da quel momento venne
sempre indicata con quel nome. Il motivo per cui lo scopritore scelse
questo nome, apparentemente senza relazione con la rappresentazione del
manufatto, non si conosce esattamente; forse perchè evoca la figura di
un forte guerriero che, impersonando lo spirito del giaguaro, reca
offerte agli dèi? Questa è l'impressione che lo scopritore può aver
avuto osservando questa figura dallo sguardo distante (ma non sbarrato
come nell'iconografia mesopotamica), dalle forme estremamente
semplificate ma armoniose, dall'atteggiamento placido e imperturbabile,
come se squarciasse con lo sguardo il velo dell'ignoto, ma senza
rimanerne sconvolto, icona di una misteriosa entità intermediaria fra il
nostro mondo e le dimensioni ultraterrene. Si ipotizza che sul piatto
di pietra della statua potesse essere posto il cuore delle vittime
sacrificali; ipotesi plausibile vista la feroce indole dei Toltechi, che
subentrarono alla civiltà Maya nel IX secolo d.C., fondendo la propria
cultura con la precedente.
ARCHITRAVE 26 DI YAXCHILAN
Città
Maya di Yaxchilàn, stato del Chiapas, Messico. Architrave 26 del Tempio
23. Epoca classica: 726 d.C. (9.14.15.0.0-numerazione maya) Pietra
calcarea. Misure: 215 x 85 cm. (Museo Nazionale di Antropologia, Città
del Messico)
"La grande peculiarità di Yaxchilàn, e sua gloria,
sono gli architravi di pietra scolpita sotto l'ingresso dei templi. Di
questi capolavori se ne contano 58, contro 30 stele e 16 altari. La
perfezione della scultura è tale, che a contemplarli ci si dimentica
spesso di analizzarne il contenuto, che pure è di interesse prodigioso. I
personaggi, in generale 2 per architrave, presentano il cranio
deformato al punto da avere la testa esageratamente allungata e il naso
rimodellato secondo l'ideale di bellezza maya. Si possono suddividere
gli architravi in 2 serie: quelli con scene di vita sociale e quelli con
scene magico-religiose. Con la prima serie ci troviamo sempre in
presenza di 2 personaggi; il più alto è anche il più importante dei due:
viso di profilo, ma corpo e gambe di faccia, talloni uniti con i piedi
rivolti verso l'esterno. L'uno e l'altro indossano abiti sontuosi e
analoghi e si tendono un oggetto identico: bastone da cerimonia, o croce
ornata di fiori o piume, o la miniatura del dio dal grande naso
(Itzamma). Poichè i due si somigliano, hanno probabilmente lo stesso
titolo; per cui noi riteniamo che tali scene rappresentino una fase del
passaggio dei poteri che doveva probabilmente avere luogo ogni 20 anni
(katùn). Sedute d'iniziazione, pratiche estatiche, visioni: questo è il
contenuto affascinante dei bassorilievi della seconda serie di
architravi. Sull'ARCHITRAVE 26, ad esempio, un neofita riceve dal sommo
sacerdote una testa o maschera di giaguaro, simbolo dell'ordine omonimo.
Più sorprendenti sono gli architravi del gruppo dell'autosacrificio:
uomini fastosamente abbigliati si fanno passare con zelo una corda
munita di spine attraverso un foro praticato nella lingua; il loro
sangue cola in un recipiente colmo di bastoni d'incenso di copale e di
caucciù".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori, pag.58-59)
Questo
architrave, insieme ad altri due attualmente al British Museum, sono
considerati tra i più belli mai scolpiti nell'area Maya e sono opera
dello stesso artista. Originariamente erano ambientati nello stesso
edificio e ognuno di essi registrava un evento importante nella vita
dell'importante sovrano yaxchilan Itzamnaaj Bahlam (Scudo giaguaro). La
forma molto allungata del cranio è il prodotto di una deformazione
ottenuta artificialmente nell'infanzia e frequente presso i Maya.
L'altro personaggio, il cui viso è segnato da decorazioni, era
probabilmente un sacerdote dell'Ordine del Giaguaro e tiene fra le mani
una testa di questo felino.
"Ogni luna, ogni anno, ogni giorno, ogni vento cammina e passa a sua volta. Del pari ogni sangue giunge al luogo della sua quiete, così come giunge al suo potere e al suo trono".
Dal "Libro di Chilam Balam" (in lingua maya-yucateca significa "libro dei segreti degli Indovini"), scritto e illustrato da Juan José Hoil, un indigeno del distretto di Chumayel, stato dello Yucatàn, Messico, dal 1782 al 1800. Il manoscritto è bilingue, con testo in lingua maya-yucateca in caratteri latini e traduzioni spagnole. Il libro narra le memorie storiche della civiltà Maya dello Yucatàn, le leggende, i rituali e le tradizioni.
Foto: statua nella foresta nei dintorni della città Maya di Copàn.
Dall'Africa all'America Latina, fin dalla Preistoria il felino è animale maestro di iniziazione, animale che uccide, divora, e porta alla rinascita.
Presso le civiltà Azteca, Maya e Inca, e in generale nelle culture indigene sudamericane, la figura del Giaguaro veniva venerata sotto le spoglie di molte divinità. Il dio maya del Sole, possedeva sia l’aspetto diurno che quello notturno. Nella sua manifestazione diurna, il sole era spesso raffigurato con tratti di giaguaro. Tuttavia, fra il tramonto e l’alba diventava effettivamente il dio Giaguaro, Signore dell’Oltretomba, e viaggiava da ovest a est attraverso le regioni più basse del mondo. Il suo nome deriva dalla parola "yaguar", nome attribuitogli dagli indios Guaraní del Paraguay e significa "colui che uccide con un balzo". Nel pantheon maya, il dio giaguaro era secondo solo al dio serpente per importanza religiosa. Al Tempio del Giaguaro a Chichen Itza, il Re doveva camminare sotto un fregio di una processione di giaguari durante la sua cerimonia di incoronazione.
Nella mitologia Maya, il giaguaro era visto come il sovrano degli Inferi e, come tale, un simbolo del Sole notturno e dell'oscurità, ma pur sempre un simbolo solare, quindi con il valore di mediazione fra luce e oscurità. C'erano sacerdoti Maya chiamati Balam che officiavano solo le cerimonie più importanti. Insieme agli Aztechi e ai Maya, anche gli Inca costruirono templi al Giaguaro. Il Giaguaro rappresenta il potere di affrontare le proprie paure o i propri nemici. I giaguari sono anche associati alla visione, il che significa sia la loro capacità di vedere durante la notte sia di guardare nelle parti oscure del cuore umano. Il Giaguaro spesso avverte del disastro, non offre alcuna rassicurazione. Insieme alla visione fisica, i giaguari sono anche associati alla preveggenza e alla preconoscenza delle cose a venire. I felini hanno una visione binoculare, il che significa che ogni occhio può lavorare da solo, il che fornisce loro una migliore percezione della profondità. Ciò fornisce ulteriori prove della loro connessione con la visione e la lungimiranza.
Felino compreso nel genere "panthera" (Lorenz Oken-1816), il leopardo è legato al dio romano Bacco (in greco Dioniso). Infatti Bacco sarebbe stato allevato dalle pantere e in alcune raffigurazioni sta cavalcando un carro trainato dai grandi felini. Bacco è spesso considerato il dio del vino e degli stati alterati di coscienza, ed è fortemente legato alla fiamma del desiderio. Quindi, anche la pantera è un simbolo di impulsi e abilità inconsci. Questo è qualcosa di cui anche gli Aztechi e i Maya erano a conoscenza, come tutti i culti iniziatici del mondo. Entrambi i popoli invocavano il potere di diventare mezzo Giaguaro e mezzo umano, perché una persona che può farlo può liberarsi di tutte le sue restrizioni e inibizioni culturali. In altre parole, può finalmente agire in base ai suoi desideri nascosti, con responsabilità e consapevolezza: l'energia (il felino) sotto la guida dell'uomo; il medesimo significato (di indirizzo consapevole delle proprie energie) è rappresentato nelle opere in cui Bacco cavalca il leopardo, ovvero la trasformazione e sublimazione delle forze istintive.
Foto: urna maya in terracotta con figura di giaguaro e teschi. Misure: 44x50 cm.; datazione: circa 600 d.C.
Città Maya di chichen-Itza (VI-XI secolo d.C.): bassorilievo dellaa Terrazza Est del Gioco della Pelota. Altezza circa 1 metro e mezzo. Il capitano della squadra vincente tiene nella mano sinistra la testa del capitano della squadra sconfitta. Dal collo del decapitato scaturisono 7 serpenti. Al centro, la palla è decorata con un cranio umano. Le mascelle socchiuse lasciano passare il simbolo della morte.
"Diffuso in tutta l'America precolombiana, il gioco della pelota era particolarmente sviluppato nell'America Centrale, dove veniva praticato nell'ambito di tutte le grandi civiltà. Ogni città Maya classica possedeva uno o più terreni di gioco. Quello di Chichen Itza è il più imponente di tutto il Messico e i tre edifici costruiti sul suo perimetro ne sottolineano l'importanza: due piccoli templi, o tribune, alle due estremità del terreno, e l'originalissimo tempio dei giaguari, che domina il muro est. Da un lato il tempio si apre direttamente sulla grande piazza del Castillo, di fronte al tempio dei guerrieri, mentre la parte superiore, ossia il primo piano, dà sul terreno di gioco attraverso un elegante porticato a colonne serpentine. Tutti i bassorilievi, quelli delle colonne, delle scale, dei muri sono un omaggio a Quetzacoatl e ai guerrieri toltechi. Il terreno riservato al gioco misura 95 metri di lunghezza per 35 di larghezza. Su tutta la lunghezza è fiancheggiato da due muri alti 8 metri nei quali sono infissi due grandi anelli di pietra in posizione corrispondente al centro dello spiazzo. Ai piedi dei muri corrono due lunghe terrazze riservate agli spettatori. Due squadre partecipavano agli incontri. I giocatori dovevano far passare la palla negli anelli di pietra. La palla era fabbricata con il caucciù di una hevea selvatica, espressamente incisa a tale scopo. Era vietato colpire la palla con mani o piedi; bisognava rilanciarla con le anche, le spalle, le ginocchia. La palla non doveva mai toccare terra. In questo modo era rarissimo il caso che la palla passasse attraverso l'anello e per lo più la squadra vincente era quella che aveva commesso meno errori: palla a terra, palla fuori limite del campo, palla toccata con mano, ecc...Conosciamo tutti questi particolari dai cronisti spagnoli che ebbero la venturaa di assistere a numerose partite di questo gioco negli anni che seguirono la conquista. In effetti, gli Aztechi ne erano fanatici ed erano giunti aa farne un divertimento profano. Ogni palazzo azteco aveva il suo terreno di gioco. Gli incontri erano accaniti e le poste in palio elevatissime; a volte era coinvolta l'intera popolazione, e le cronache segnalano che Montezuma, ultimo imperatore azteco, un giorno si mescolò a una squadra che giocava per por fine ad un litigio territoriale. Lo spirito sportivo non esisteva presso i Toltechi, nè presso gli Aztechi. Il gioco non era una dimostrazione di destrezza ed abilità sportiva, bensì una sorta di funzione liturgica, mediante l'interpretazione della quale gli dei esprimevano i propri desideri. Questo spiega le grandi cautele e l'alone religioso che circondavano tutto ciò che concerneva il gioco della palla. Durante la notte che precedeva lo scontro le due squadre pregavano. I giocatori chiedevano agli dèi di render loro favorevole la palla e rivolgevano incantesimi ai vari oggetti che componevano il loro equipaggiamento: guanti, ginocchiere, spallacci. Gli anelli di pietra erano anch'essi oggetto di numerose preghiere, al pari della palla, di cui il caucciù accentuava ancor più il carattere magico. Il caucciù è sempre stato un incenso di prim'ordine, un'offerta preziosa, e probabilmente dopo la partita i giocatori offrivano la palla agli dei, bruciandola; in precedenza l'avevano bagnata col sangue dei vinti. Un disegno del Codex Nuttall mostra un altare mixteco sul quale si consuma una palla di caucciù, e il Codex Vindobonensis, presenta un gioco della palla nel simbolo del cielo, mentre all'orizzonte si avventa una palla di caucciù ardente. E' difficile per noi credere che la squadra che perdeva la partita perdesse anche la vita, ma a tale proposito i bassorilievi della terrazza est, bordata da un lungo serpente di pietra, sono molto precisi. I sette giocatori di ogni squadra convergono verso uno stesso punto: una palla decorata con un cranio umano. Due grandi volute escono dalla mandibola del teschio; ricordano la lingua bifida del serpente, ma ancor più il segno miquitzztli, che significa morte, e che nel calendario era quello del giorno propizio alle feste del sole e di Tezcatlipoca, il dio tolteco della guerra. Tutti i giocaatori sono sontuosamente agghindati: casco piumato, alti cinturoni, ginocchiere alla gamba destra. Alla vita portano un oggetto ddi legno che ricorda una mazza ed è sormontato da una testa di scimmia o un poccolo cranio umano. Il singolare accessorio a forma di serpente che i giocatori stringono nella mano destra permane assai misterioso.
Descizione del bassorilievo
La scena centrale è particolarmente significativa. Il primo giocatore della squadra di sinistra tiene nella destra il coltello di selce dei sacrifici umani e nella sinistra la testa del primo giocatore della squadra avversaria, quello che ha perso la partita. Il decapitato è in ginocchio; dal collo sanguinante guizzano sette serpenti; quello al centro ha la forma di una pianta lussureggiante, carica di frutta e di fiori. Sette giocaatori, sette serpenti...La cifra non è frutto della fantasia dello scultore; sta a ricordare la dea Chicomecoatl (sette serpenti). Inoltre il 7 è la cifra simbolica del mais; del pari, ha un posto privilegiato al centro della serie numerica fondamentale del calendario magico, tra l'1 e il 13. Questo centro rappresenta anche il cuore dell'uomo e il cuore della spiga. Esiste perciò nel gioco della palla un rapporto certo tra i riti della fertilità e i riti della decapitazione: constatazione che è suffragata dalle osservazioni dell'etnografia, per cui tali riti si rifanno a certi miti cosmogonici. Ricorderemo la palla, identificata col sole nei codici nahua, e dei serpenti attorcigliati, simbolo probabile del cielo, scolpiti sugli anelli di pietra nel gioco della palla. Il gioco era quidi una rappresentazione del corso del sole, raffigurato dalla palla, e dall'esito della partita dipendeva la fertilità della terra. Con ogni probabilità gli incontri erano un'occasione per porre in competizione fra loro i rappresentanti di due gruppi ben definiti della società; il gruppo dei vincitori si assumeva l'incarico di eseguire certi rituali, quelli dei vinti forniva le vittime necessarie ai sacrifici".
Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 113-112-109-108-107; Mondadori Editore
Scultura del dio Maya del mais, Chaac, nell'aspetto di un giovane che indossa un copricapo a forma di spiga di grano stilizzata e capelli a forma di pannocchia. La testa è sproporzionatamente grande rispetto alle spalle strette e al busto snello; la scultura è stata probabilmente scolpita da due diversi blocchi di calcare, uno per la testa e l'altro per il busto. Il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya, racconta una storia della creazione secondo la quale l'uomo è stato creato dal mais. Il giovane dio del mais è qui raffigurato al momento della sua emersione dagli inferi come l'incarnazione di una vigorosa rinascita, che segna l'inizio del ciclo agricolo annuale di rinnovamento. Molti busti simili furono usati come abbellimenti architettonici sul Tempio 22 a Copàn. Questa scultura del dio del mais è una delle otto che un tempo erano incastonate sul cornicione della Struttura 22, commissionata da Waxaklajuun Ub'aah K'awiil (noto anche come '18-Rabbit'), il tredicesimo sovrano di Copàn. Il Tempio fu costruito nel 715 d.C. per commemorare il ventesimo anniversario della sua ascesa al trono.
Datato: 715 d.C., periodo Tardo Classico
Provenienza: America centrale; Honduras; città maya di Copan, Struttura 22.
Materiale: pietra calcarea
Altezza: 89 centimetri. Larghezza: 56,50 centimetri. Profondità: 30 centimetri
British Museum - Numero di catalogo: Am1923, Maud.8
"I loro personaggi sacri non usano mitre strette e ricurve, come gli Indù. Gli ornamenti sul loro capo sono pure astrazioni geometriche, come quei tersi coni e cilindri usati dal popolo negli affreschi di Piero della Francesca. A volte le loro acconciature consistono in fantastiche combinazioni di motivi simbolici e decorativi. Sono raffigurazioni delle tiare di piume usate dai personaggi di alto rango. Coteste aureole di piume, decorazioni di matematici disegni cubisti, diventano naturaliste o austeramente astratte nella loro distribuzione formale. Fra le più esorbitanti combinazioni ornamentali maya figurano i geroglifici: le fantasticherie della decorazione gotica appaiono pedestri, al confronto. Ma per quanto ricche e bizzarre, queste stravaganze sono rigidamente disciplinate, sottomesse a un severissimo ordine intellettuale".
Aldous Huxley, citazione dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagina 7. (Mondadori Editore)
"Chaac" in lingua maya dello Yucatàn significa "pioggia". La divinità ha il naso simile ad una proboscide, ma in realtà richiama la figura del serpente, che nelle culture precolombiane è associato alla pioggia e all'energia vitale: la lingua è bifida, ai lati della bocca spuntano due lunghi denti di serpente; nella mano destra regge la coppa d'acqua che spargerà la pioggia sulla terra, nella mano sinistra ha un cuore umano, che evoca, per analogia, la germinazione del mais. Infatti il cuore della spiga del mais, associato al numero sette, rappresenta anche il centro del cuore umano (come descritto a pagina 113 del libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff), associando il mito della resurrezione ciclica del dio del mais alla rinascita dell'anima umana nella correlazione universale delle leggi del Cosmo. A questo proposito ricordiamo le statuette maya di terracotta rinvenute nell'Isola di Jaina (Messico) che ritraggono defunti che emergono da un fiore, così come il dio del mais emerge dall'involucro della pannocchia.
Chaac è la divinità maya della pioggia e, di conseguenza, responsabile della germinazione del mais. Con la sua ascia di luce colpisce le nuvole producendo fulmini e pioggia. Chaac corrisponde a Tlaloc per gli Aztechi. Chaac era uno e quadruplice: i quattro Chaac presiedevano ai quattro punti cardinali o lati del mondo. La divinità che nei testi coloniali riceve il nome di Chaac, fu identificata dal ricercatore Paul Schellhas (1904) come il "dio B", il più rappresentato nei codici per il suo significato di pioggia e rinascita.
Tecnica
Il colore blu era ottenuto mescolando a caldo il pigmento indaco (non adatto alla pittura) con una particolare argilla, risolvendo in questo modo il problema dell'incompatibilità; il rosso è composto da ossido di ferro (o ocra rossa).
Sinistra: a) Codice di Dresda, p. 35b. b) Codice Madrid, p. 4a. Destra: Urna di Chaac. Mayapán. Museo Nacional de Antropología. Il Codice di Dresda (in latino Codex Dresdensis) è un manoscritto risalente al XIII o al XIV secolo ed è considerato il codice superstite più antico proveniente dalle Americhe. Il codice venne riscoperto nella città di Dresda, da cui prende il nome, ed originariamente fu scritto dalla popolazione Maya nella loro lingua. È conservato presso la biblioteca universitaria del land di Sassonia, a Dresda, in Germania.
Il Codice di Madrid è un manoscritto in lingua maya, risalente al periodo preispanico, più precisamente al tardo periodo postclassico mesoamericano. Il luogo di provenienza di questo codice è stato ipotizzato essere Tayasal, ultima città Maya conquistata nel 1697. Attualmente è conservato presso il Museo de América a Madrid.
LA PIRAMIDE DELL'INDOVINO DI UXMAL, STATO DELLO YUCATAN, MESSICO
Portale del Tempio della Piramide dell'Indovino, nella città Maya di Uxmal, Yucatàn, Messico. Il livello più inferiore del Tempio si stima sia stato costruito intorno al 568 d.C.; l'ultimo piano invece, detto "La Casa dell'Indovino", venne terminato nel X secolo d.C. La leggenda narra che questa immensa struttura sia stata realizzata in una sola notte da un nano con poteri magici.
"La Piramide dell'Indovino, alta 30 metri, ha riservato agli archeologi sorprese a non finire. Si compone di 5 templi sovrapposti, quasi incastrati uno nell'altro. E' una sintesi di pietra di 3 secoli d'occupazione continuata. Si osserva con stupore che ogni costruzione, seppellendo la precedente, mutava l'orientazione del santuario. Il Tempio IV, integralmente libero, è di stile Chenes. La facciata è decorata con una maschera del dio Chaac le cui fauci fungono da ingresso: evidente richiamo della funzione del Tempio per i rituali di passaggio (nel senso che occorre morire nelle fauci del mostro per rinascere a novella vita, quella che segue l'iniziazione). Ma si tratta di una decorazione inattesa, in questa che è la capitale dello stile Puuc. Altra caratteristica è la presenza di modanature, ovvero legami che rinserrano l'edificio nella sua totalità, alla sommità e sotto la porzione decorata".
Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 124, Mondadori Editore
La leggenda narra che un nano di Uxmal, che poi divenne Re, costruì questa meraviglia in una sola notte. Il nano nacque da un uovo trovato da una strega vicino a Uxmal ed aveva la capacità di indovinare il futuro, per cui fu chiamato "Indovino" e da qui il nome della piramide.
STILE PUUC: Puuc è una regione montagnosa dello Yucatàn, che ha dato il nome allo stile proprio di questa penisola. L'architettura dello stile Puuc è caratterizzata da incisioni complesse, mosaici dai disegni geometrici incisi nella roccia e maschere di Chaac, il dio della pioggia.
STILE CHENES: Dal termine maya "chan" (pozzo), Chenes è una regione centromeridionale dello Stato di Campeche, Messico, così chiamata per i suoi numerosissimi pozzi naturali. Ha dato il nome allo stile "Chenes" dello Yucatàn. Lo stile Chenes è molto simile allo stile Puuc, ma lo precede nell'uso delle facciate a mosaico. È caratterizzato da facciate completamente adornate su entrambe le sezioni superiori e inferiori dei vari edifici. Alcune porte erano circondate da maschere a mosaico di mostri che rappresentano divinità della montagna o del cielo, identificandole quindi come ingressi al regno soprannaturale.
Un'anziana maga viveva nella città di Kabah, soprintendendo all'oracolo. Essendo sterile, pregava il dio Chin Chan di darle un figlio. La divinità infine apparve e le disse di andare ogni giorno al cenote (pozzo) a controllare certe uova di tartaruga. La donna lo fece e un giorno, trovandone uno particolarmente grande, lo portò a casa. Quando l'uovo si dischiuse emerse un bambino. Trascorsero gli anni ma, nonostante i cambiamenti nell'aspetto, come lo spuntare della barba, il figlio rimaneva sempre della stessa statura. Comprese allora che si trattava di un nano. Egli, vedendo la madre sempre intenta davanti ad un calderone, avvicinandosi a lei notò un "tunkul": tamburo cavo a fessura il cui suono era talmente potente che, quando il nano lo provò, il suo tono riecheggiò in tutta la città di Uxmal. Era stato predetto che, qualora si fosse udito quel suono, il Regno al potere sarebbe stato concluso. Il Re ordinò di trovare il colpevole del suono del tunkul e, quando si scoprì che fu il nano, il sovrano lo interrogò chiedendogli se la profezia poteva essere evitata. Il nano rispose negativamente. Il Re perciò sottopose il nano a tre prove: costruire una strada lunga e dritta da Uxmal a Kabah, prontamente completata. La seconda prova fu la costruzione di una struttura talmente alta da superare tutte quelle del luogo, e il nano, il mattino successivo, si svegliò sulla piramide di Uxmal, detta "Piramide dell'Indovino" in suo onore. Ma il Re non si arrese. Alla terza prova il nano dovette trovare tre durissime noci di palma Coyol; entrambi se le sarebbero spaccate sulla testa fino a che uno solo dei due sarebbe sopravvissuto e al Re toccò la sorte peggiore. Il nano diventò Re di Uxmal e nei primi tempi governò con temperanza senza lasciarsi accecare dal potere. Ma in seguito cedette alla vanagloria, facendosi costruire idoli a propria immagine che i sudditi dovevano adorare, creando una divinità (sè stesso) che voleva essere superiore a tutte le altre. La prima statua di legno non superò la prova del fuoco. La seconda di pietra superò la prova. La terza di argilla si indurì col fuoco e superò anch'essa la prova; il nano le ordinò di parlare ed essa parlò e fu perciò adorata dal popolo come Kul Katob (adorazione del fango). Ma il monarca perse la protezione di tutti gli altri dèi che scatenarono su di lui una terribile sciagura, venendo la città invasa e distrutta da terribili guerrieri che la incendiarono.
Incensiere in ceramica nello stile artistico di Teotihuacan. Rappresenta un guerriero con copricapo e anello al naso a forma di farfalla, stilizzata mediante la geometrizzazione tipica dell'arte mesoamericana. Il volto è incorniciato da un motivo simile a un fiore. Gli occhi della farfalla si aprono ai lati di questa cornice, in alto, sul copricapo. Sopra gli occhi pendono le antenne della farfalla, con le sfrangiature dei recettori sensoriali. Le quattro spazzole superiori forse rappresentano la folta peluria dell'insetto con il metodo controllato e matematico tipico dell'arte precolombiana. Il grande medaglione incorniciato da un motivo a raggiera reca un misterioso geroglifico. Gli occhi erano intarsiati con gemme di pirite, di cui è rimasto qualche frammento. La farfalla raffigurata è probabilmente della specie "Rothschildia-Orizaba", che vive in Messico, Centro e Sud America. La farfalla aveva una grande importanza nella cultura Maya, connessa alla manifestazione degli Antenati e dei defunti.
Materiale: ceramica.
Altezza: 29 cm; diametro: 21 cm.
Datazione: Periodo Classico, a partire dal 250 d.C.
Provenienza: Costa del Pacifico, Guatemala
Conservato al Museo Popol Vuh, Città del Guatemala.
Numero catalogo:0209
La farfalla "Rothschildia-Orizaba" è una falena della famiglia Saturnidae, che vive in Centro e Sud America. Con le sembianze di questa farfalla veniva raffigurata la dea Itzpapalotl degli Aztechi. La specie venne descritta per la prima volta dall'entomologo John Westwood nel 1854.
In Centro America le farfalle sono viste come simboli di trasformazione e crescita spirituale. Anche per i Maya, come in genere per tutte le culture del mondo, laa farfalla era la rappresentazione dell'anima, in particolare della presenza degli Antenati o dei defunti che attraverso di essa comunicavano con i vivi.
L'ALTARE "B" DELLA CITTA' MAYA DI QUIRIGUA'
Altare zoomorfo B, dalla città Maya di Quiriguà, datato 780 d.C. (corrispondente, nel calendario maya, a: 9.17.10.0.0., ovvero 12 Ahau 8 Pax. Altezza 1 metro e 90 cm.; lunghezza 4,6 metri; larghezza 3,35 metri. E' tagliato in grès bruno. Una testa umana emerge dalle fauci di un coccodrillo.
Venne dedicato nel 780 d.C. da K'ak' Tiliw Chan Yopaat, il più grande condottiero della città-stato di Quiriguà, che nel 738 d.C. sconfisse la città di Copàn di cui era vassallo.
L'altare è un masso di molte tonnellate scolpito nella forma di un'entità per metà coccodrillo e per metà montagna. Il testo geroglifico su questo monumento è costituito interamente da glifi a figura intera. Su questa effigie zoomorfa, sono state trovate tracce di pigmento rosso. Come facevano i Maya a fare la vernice rossa? I Maya realizzavano la pittura con bacche, frutti, insetti, piante, argilla e ossidiana locali. Gli ingredienti venivano mescolati con acqua per fare una pasta che poteva essere usata come vernice. Ad esempio, gli insetti cocciniglia venivano schiacciati e mescolati con acqua per fare la vernice rossa. Un deposito di offerte è stato trovato sepolto in una fossa sotto l'Altare B. Comprendeva sette lame di selce di lunghezza compresa tra 14 e 46 cm.
Il coccodrillo è il primo dei 20 giorni del calendario magico maya. È conosciuto anche con il nome Imix e simboleggia un nuovo inizio, le potenzialità da far emergere dall'oscurità degli abissi. I Maya credevano che un antico coccodrillo vivesse negli Inferi in fondo all'oceano. Il mondo è stato portato sulla sua schiena e il coccodrillo ha dato all'umanità un legame indissolubile con la terra.
I coccodrilli nell'astrologia Maya simboleggiano nuovi inizi. L'acqua è un elemento chiave per il segno del Coccodrillo e simboleggia anche il processo di nascita e maternità. È il primo segno e ogni altro segno lo seguirà. È il catalizzatore iniziale della creazione.
Il coccodrillo va di pari passo con abilità psichiche, altri mondi e dimensioni. Imix rappresenta la comunicazione con l'altro mondo o l'altro lato della realtà. Simboleggia anche follia, dubbio e disturbi mentali.
Le statuette emerse dalle tombe della necropoli di Jaina ritraggono defunti solitamente intenti nelle attività quotidiane che svolgevano in vita, o a mezzo busto nella corolla di un fiore, a simboleggiare l'immortalità e il transito dell'anima ad una nuova esistenza. Il loro stile è straordinariamente vivace, si potrebbe considerare "laico" in confronto alla ieraticità tradizionale dell'arte Maya.
Le stele furono create per ornare le città, o le città nacquero come cornice per le stele? Teoria di Pierre Ivanoff.
"I Maya avevano una concezione oltremodo singolare del tempo. Ogni lasso di tempo, giorno, mese, anno, ciclo, era rappresentato da un dio installato sulle spalle di un altro dio che lo trasportava da un punto all'altro dell'orizzonte. Il tempo si spostava instancabilmente nello spazio orientato del grande universo quadripartito dei Maya. Sulle stele, tali strane divinità erano a volte accompagnate dai 9 dèi della notte, i Bolonkitu, dalle divinità dei mesi lunari e degli anni venusiani e da quelle delle eclissi. Nessun popolo al mondo ha mai avuto una tale preoccupazione del tempo, un'ossessione che è imparentata con la magia e che costituì il motore di tutta la sua civiltà. Per annotare e calcolare il tempo i Maya hanno inventato la scrittura e la matematica. Per secoli hanno eseguito osservazioni astronomiche rigorose; hanno elaborato calendari più precisi dei nostri. Vien fatto allora di chiedersi fino a che punto le città sacre non siano state costruite all'unico scopo di fornire alle stele, pietre miliari del tempo, una cornice degna, una sorta di terreno consacrato. Ai piedi delle stele, magnifici blocchi di pietra scolpiti attendevano le offerte e i sacrifici".
Da libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff (etnografo; 1924-1975), Ed. Mondadori,1970, pagina 43.
Stele "M" (pietra alta 3 metri) davanti alla Scala dei Geroglifici, al centro dell'acropoli della città Maya di Copàn, alta 30 metri, larga 10 metri, i cui gradini sono interamente ricoperti da 2500 glifi che costituscono la più lunga iscrizione rinvenuta nei territori maya. Vi si rilevano 28 date, scaglionate tra il 545 e il 745 d.C. Venne commissionata dal sovrano K’ak Joplaj Chan. Le iscrizioni registrano la storia di Copàn, i nomi dei Re, le loro date di nascita, le date di morte, gli eventi più significativi del loro regno. Il sito fu scoperto nel 1570 da Diego Garcia de Palacio, esploratore, scienziato e ingegnere spagnolo.
La figura è rivolta in avanti, portando la barra del serpente, da cui emergono le teste di K'awiil (divinità identificata con fulmini, serpenti, fertilità e mais) recanti il glifo e la torcia (o "ascia e fumo") sulla fronte, evocando " k'awiil”: il simbolo dell'autorità reale. K'awiil sulla fronte, in particolare, può simboleggiare l'apoteosi di un Re come Dio K, patrono dei re.
La figura porta un elmo di coccodrillo in testa, lancette al polso e i serpenti e gli occhi del giaguaro solare sul perizoma. Sulla sua cintura ci sono pannelli del glifo a bande incrociate associato al fondatore. La figura è circondata da una serie di immagini grottesche. La stele presenta anche serpenti su uno sfondo piumato con rosette e abbellimenti di trecce e nappe.
LA VOLTA NELL'ARCHITETTURA MAYA
L'immagine dell'arco nell'architettura Maya è una reminiscenza di creazioni ancestrali tramandata dagli Antenati che varcarono lo stretto di Bering per accedere al continente americano decine di migliaia di anni fa?
"Il nucleo di calcestruzzo manteneva in sospeso ciascuna delle pietre della volta. I Maya facevano certo ricorso a complicate palafitte per il cementaggio. La volta maya è in realtà una falsa volta: non sostiene un insieme, ma è mantenuta dall'insieme. I Maya, brillanti architetti, non hanno saputo trar partito dai materiali di cui disponevano. L'impiego troppo limitato della volta non ha loro permesso di impartire agli edifici le belle prospettive interne che ci si poteva aspettare. La volta, che fu una scoperta di importanza capitale per l'architettura del Vecchio Mondo, sembra sia stata creata presso i Maya unicamente in forma simbolica. Evocava forse l'interno dei templi primitivi, dai muri di terra e dai tetti di paglia. Dobbiamo invece ritenere che la volta sia un archetipo che i Maya avrebbero voluto ricreare, senza giungere a superare le difficoltà tecniche della sua attuazione? E' altresì possibile ipotizzare che l'immagine della volta associata alle costruzioni sacre fosse presente nello spirito degli antenati, al loro arrivo sul continente americano, immagine che avrebbero incontrato prima di lasciare l'Asia. Avrebbero dimenticato le astuzie tecniche della sua costruzione, ma le generazioni successive avrebbero tentato di ricrearla. Il magnifico arco di Kabah pone al visitatore una serie di complessi interrogativi".
Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 148-152 (Mondadori)
Altezza: 22 cm. Datazione: VII secolo d.C.
Provenienza: grande necropoli Maya dell'Isola di Jaina, nello Stato del Campeche, Messico. Nel sito sono presenti oltre 20.000 tombe ricche di corredi funerari e statuette di terracotta raffiguranti i defunti, solitamente intenti alle attività quotidiane che svolgevano in vita. Lo stile è straordinariamente vivace e naturalistico, diverso da quello ieratico e austero dell'arte ufficiale.
La statuetta ritrae un Alach Uinic vestito in modo opulento, metre siede eretto, come se ascoltasse le suppliche di un suddito. Il suo volto emerge dalla bocca di un serpente con la testa coronata da un pennacchio di piume, che forma il suo copricapo. Un volto che emerge dalla bocca di un dio in forma animale è un simbolo ricorrente nell'arte Maya. Le spalle sono coperte da un pettorale adornato con grandi dischi di giada; indossa braccialetti di giada che coprono la maggior parte dei suoi avambracci. La barba, che denota l'alto rango del personaggio, è raffigurata come un pizzetto ben rifinito. Due tatuaggi a linee parallele adornano i lati della bocca. Appoggia le mani sulle ginocchia e nella mano sinistra regge una borsa per il copale (resina da cui si ricava un pregiato incenso), elemento distintivo dei sacerdoti. (Museo Nazionale di Antropologia e Archeologia, Messico)
"Ciascuno dei 20 stati dello Yucatàn dipendeva da un capo supremo, un "ALACH UINIC" (che in lingua maya significa "vero uomo"). La carica, ereditaria, si trasmetteva dal padre al figlio maggiore. Se quest'ultimo era troppo giovane alla morte del padre, la reggenza era assicurata dagli zii paterni. L'ALACH UINIC era un vero e proprio Re nel suo territorio; ne aveva tutti i poteri, ma non ne abusava. I suoi sudditi gli riservavano il titolo supremo, "AHAU", equivalente di Re, monarca o imperatore. E' interessante ossevare che questo termine possiede un primo significato d'ordine calendario riservato all'ultimo dei 20 giorni del mese maya.; giorno che aveva un'importanza capitale per situare il tempo e le date nel computo abbreviato. Il Re, con la collaborazione del consiglio di stato, composto di capo di villaggio, sacerdoti e consiglieri, dirigeva la politica interna ed estera dello stato. Gli era riservata una missione fondamentale: all'inizio del nuovo katun (periodo di 20 anni), sottoponeva ad un esame coloro che aspiravano alla carica di governatore di villaggio. Gli interrogatori, del tutto particolari, si svolgevano in una LINGUA ESOTERICA. E' evidente che tale lingua era riservata ad un esiguo numero di individui; si trattava di una sorte di capitale familiare che riduceva notevolmente le possibilità di scelta dell'ALACH UINIC. In definitiva, questi designava i suoi governatori sempre nell'ambito di una stessa casta privilegiata. Sembra che l'interrogatorio dei capi sia stato il riflesso di una rotazione dei poteri, parallela alla rotazione del tempo. La nobiltà maya, ereditaria, era detta "ALMEHENOOB", letteralmente "coloro che hanno un padre e una madre, vale a dire coloro che appartengono a un lignaggio. Era in questo strato della società che l'ALACH UINIC reclutava i suoi governatori, mediante il criterio dell'interrogatorio dei capi".
Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, Mondadori, pagine 138-139
Provenienza: necropoli Maya dell'Isola di Jaina, Stato del Campeche, Messico. Datazione: 600 d.C. Il sito è importante per le numerosissime statuette-ritratto, destinate ad accompagnare il defunto nell'aldilà, emerse da oltre 20.000 tombe. Materiale: ceramica con tracce di pigmento. Altezza: 13,3 cm.
Parte superiore: sulla testa del serpente compare il dio B (Chac, il dio della pioggia); a destra, sulla coda, la dea I (Ixchel, sposa di Itzamma). Le due divinità versano acqua da un recipiente che tengono in mano.
Parte inferiore: la dea Ixchel ha sulla testa un serpente. Dal suo corpo zampillano getti d'acqua. Sulle mani protese, due animali sputano acqua. Sul piede destro sono rannicchiati altri due animaletti. Il piede sinistro sorregge il dio B. L'insieme simboleggia la stagione delle piogge.
Il Codice Tro-Cortesiano (o "Codice di Madrid") è un manoscritto in lingua maya risalente al XIV secolo d.C. (ddunque precedente alla scoperta dell'America), corrispondente al Tardo Periodo Post Classico della civiltà Maya. Scoperto nel XIX secolo, è composto da 56 fogli scritti da ambo i lati, per un totale di 112 pagine. Ripiegato a fisarmonica, misura 6 metri e 82 centimetri di lunghezza.
Materiale: corteccia di Ficus Citinofolia, battuta, impregnata di resina, poi ricoperta da un sottile strato di calce; in seguito dipinta con colori vegetali.
Immagine dal Codice di Dresda: manoscritto Maya su corteccia battuta di Ficus Citinofolia, risalente al XIII secolo d.C. E' il codice Maya più antico sopravvissuto alla distruzione spagnola. E' formato da 78 pagine ripiegate a fisarmonica, per unaa lunghezza di 3,50 metri. Custodito presso la Biblioteca di Dresda, Germania, dal 1739.
Ixchel riempiva il mondo di colori, costituiva il ponte fra il cielo e la terra, permettendo la comunicazione fra gli uomini e gli Dèi. Era spesso raffigurata intenta alla tessitura o mentre porta sulle spalle il Destino, nella forma di un piccolo uomo seduto (come nel disegno qui presente).
Immagine dal Codice di Dresda: manoscritto Maya su corteccia battuta di Ficus Citinofolia, risalente al XIII secolo d.C. E' il codice Maya più antico sopravvissuto alla distruzione spagnola. E' formato da 78 pagine ripiegate a fisarmonica, per una lunghezza di 3,50 metri. Custodito presso la Biblioteca di Dresda, Germania, dal 1739.
"La carica di capo di guerra era ereditaria, ma il comandante supremo era eletto solo per tre anni. Aveva enormi responsabilità. Lo si venerava come un idolo; riceveva offerte d'incenso ed era portato al Tempio in processione. In compenso, egli era tenuto a condurre una vita del tutto esemplare per la durata dei tre anni del suo mandato, osservando una castità assoluta ed attendendosi a numerosi tabù alimentari. I Consiglieri, AH CUCH CALOOB, in numero di due o tre, si situavano gerarchicamente sotto il Governatore. Senza il loro consenso non si poteva far nulla. Tre di essi, gli AH POPOL, "coloro che sono posti dinanzi alla stuoia" (la stuoia è un simbolo di autorità) erano incaricati dei rapporti tra i Signori e la gente del popolo. Erano i capi delle POPOLNA, le case di riunione dove si trattava degli affari pubblici, ed erano anche i cantori responsabili delle prove di musica e danza. Alla testa di tutti i sacerdoti si poneva il Sommo Sacerdote, il SIGNORE-SERPENTE, AHAUKAN, che ha avuto una parte di primo piano negli staterelli dello Yucatàn. Oltremodo rispettato dalla nobiltà, si contraddistingueva per il fatto di non avere nessuno al proprio servizio. Vero è che viveva di offerte, spesso sontuose. Il Sommo Sacerdote era il primo consigliere del Capo del territorio e da lui dipendeva il destino culturale dello Stato. Sacrifici, divinazione, osservazione degli astri, amministrazione dei monasteri, insegnamento, calcoli cronologici, redazione di codici, tutto gli incombeva, ivi compreso la costruzione di città sacre, di cui sorvegliava rigidamente la composizione architettonica. In questi compiti spossanti, era aiutato da un gran numero di sacerdoti, gli AHKIM. L'onniscente SIGNORE-SERPENTE era il depositario di tutta la cultura maya. Essendo la carica ereditaria, le cognizioni si trasmenttevano di padre in figlio e di generazione in generazione, sopravvivendo felicemente a tutti gli accidenti storici che avrebbero potuto distruggerle. E' a questi custodi delle tradizioni di una civiltà probabilmente oltremodo teocratica in origine, che dobbiamo oggi la conoscenza delle gesta culturali dei Maya. I CHILAM costituivano una categoria di sacerdoti specializzati nella divinazione e molto rispettati dai Maya; al punto che, quando si presentavano in pubblico, la gente accorreva per issarli sulle spalle ed evitare loro di insudiciarsi a contatto del suolo".
Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 139-140 (Mondadori Editore)
TZOLKIN: IL CALENDARIO MAGICO DEI MAYA COME SIMBOLO DI ALLEANZA FRA L'UOMO E IL CIELO
Il calendario maya non veniva utilizzato solo dai Maya, ma anche da altri popoli dell’America centrale (Aztechi e Toltechi). Si tratta di un calendario molto elaborato, basato su più cicli di durata diversa:
CICLO TZOLKIN: aveva una durata di 260 giorni. Lo TZOLKIN era il calendario magico della civiltà Maya, mediante il quale avveniva la comprensione del Destino: ossia della propria missione nella vita; aveva perciò un valore mistico e spirituale.
CICLO HAAB: aveva una durata di 364 giorni, più il “giorno fuori dal tempo”.
LUNGO COMPUTO: indicava il numero di giorni dall’inizio dell’era maya.
"Il calendario magico dei Maya si compone di 13 mesi di 20 giorni, e conta perciò 260 giorni. La scelta del numero 20 si spiega con l'uso del sistema di numerazione vigesimale. UINAL in lingua maya significa 20 e ha la stessa radice di UINIC, ossia "uomo", termine che si ritrova nel titolo del capo supremo: ALACH UINIC (vero uomo). Il numero 20 si esprimeva del resto in origine con le dieci dita delle mani e le dieci dita dei piedi, il che conferma l'etimologia. Il 20 rappresenta perciò indubbiamente l'uomo, nei calendari magici. La presenza del numero 13 è più ambigua e misteriosa. Questa cifra ha un'importanza capitale nella civiltà Maya; è la pietra angolare di tutto il sistema calendario di quel popolo. La volta celeste non contava forse 13 cieli? Il calendario magico potrebbe così rappresentare simbolicamente l'alleanza tra l'uomo e il cielo. Nel calendario magico, i giorni del mese avevano ciascuno un proprio nome. Le serie di 20 giorni si susseguivano di continuo le une alle altre. Ogni giorno era preceduto da una cifra. Queste cifre, tuttavia, non andavano da 1 a 20 (come parrebbe logico, dal momento che l'anno magico consisteva in mesi di 20 giorni) ma si succedevano da 1 a 13. Quando la serie dei 13 si concludeva, si ricominciava da 1. Tali serie di 13 cifre si susseguivano parallelamente alla serie dei giorni. Occorreva quindi un lasso di tempo di 260 giorni perchè il computo delle cifre e dei giorni tornasse al punto di partenza (1 IMIX). Il tempo scorreva dunque in un modulo di 260 giorni, di volta in volta benefici o malefici, all'infinito. Oltre a tali valori magici, i venti nomi dei giorni possedevano un loro carattere. Ancora oggi, sugli altipiani del Guatemala, i bambini assumono il nome del giorno in cui nascono, nonchè il carattere dello stesso giorno. IMIX simboleggia, nel Guatemala, le forze nascoste dell'universo che si manifestano nella follia. Un bambino nato il giorno 1 IMIX porterà quindi questo nome e sarà sempre considerato come un essere anormale, dalle reazioni imprevedibili. La cifra che accompagna il nome possiede anch'essa un valore magico particolare, che si integra nel carattere più o meno fortunato del suo possessore. Le cifre che precedono i nomi degli eroi leggendari del POPOL VUH non hanno diversa origine".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 159-162)
IL TEMPIO DEL DIO DISCENDENTE DI TULUM
TULUM è una città portuale della civiltà Maya, situata nella penisola dello Yucatàn, Messico, edificata tra il VI e l'XI secolo d.C. Prima città Maya ad essere avvistata dagli spagnoli nel 1517.
Si pensa che TULUM fosse dedicata a VENERE. Alcune facciate di edifici hanno raffigurato l'immagine capovolta di un DIO DISCENDENTE, associato al tramonto e considerato connesso al pianeta. Si dice che gli ingressi alle strutture con figure di divinità discendenti siano rivolti nella direzione in cui tramonta VENERE. A TULUM ci sono diverse raffigurazioni del DIO DISCENDENTE, personificato nelle strutture 1, 5, 16, 20, 25 e 55.
"TULUM significa "fortezza", oggi città archeologica sulle coste della regione di Quintana Roo, di fronte all'isola di Cozumel. TULUM sovrasta una scogliera calcarea alta 12 metri. Il nome primitivo era ZAMA (città dell'alba"). La città si trova al riparo di una cinta di pietra alta 4 metri, per 3 metri di spessore, difesa relativamente importante, dato che si stendeva per 680 metri. La cinta è perforata da 5 anguste entrate: eccoci dunque di fronte a una seconda città fortezza nelle terre maya dello Yucatàn. Al pari della prima, la potente Mayapàn, TULUM è profondamente segnata dall'impronta tolteca....Dal canto suo, TULUM si distingueva per la venerazione di una divinità assai singolare. Nella maggior parte delle nicchie verticali ricavate sopra l'ingresso degli edifici, sono state ritrovate le statue di un DIO DISCENDENTE, misteriosa divinità di cui ignoriamo tutto: l'origine, il nome, la funzione, i poteri. Questo idolo di stucco si presenta a testa in giù e con le gambe all'aria, divaricate. Ha la coda d'uccello e le ali fissate alle braccia e alle spalle; tiene le mani giunte e in testa porta una corona. Non ci è nota alcuna raffigurazione del genere nell'arte maya classica. Tuttavia l'idolo appare, nei tre codici giunti fino a noi, assimilato a ITZAMMA. Ora, ITZAMMA, che è rappresentato nelle modellature a stucco agli angoli degli edifici di TULUM, non presenta alcuna somiglianza col suo vicino, il DIO DISCENDENTE. Eduard Georg Seler (1849–1922), grande specialista in materia, ha individuato nei codici messicani un dio che si tuffa e che impersona il sole al tramonto. Il fatto che TULUM si sia chiamata in origine CITTA' DELL'ALBA, non contrasta con tale identificazione".
(Dal libro "Città Maya di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 166-167)
Immagini del DIO DISCENDENTE si trovano nel CODICE DI DRESDA: manoscritto Maya su corteccia battuta di Ficus Citinofolia, risalente al XIII secolo d.C. E' il codice Maya più antico sopravvissuto alla distruzione spagnola. E' formato da 78 pagine ripiegate a fisarmonica, per una lunghezza di 3,50 metri. Custodito presso la Biblioteca di Dresda, Germania, dal 1739.
"La maggior parte degli edifici entro la cinta di TULUM, ha in comune una caratteristica architettonica del tutto inedita: i muri sono leggermente svasati verso l'alto , vuoi per ottenere un effetto di prospettiva, vuoi per ottenere zone d'ombra che sottolineassero il rilievo delle sculture. Ma l'obiettivo dei costruttori potrebbe anche essere staato di carattere puramente funzionale: facilitare lo scolo d'acqua piovana per evitare danni alle modellature a stucco fissate agli angoli degli edifici".
(Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 167)
Il TEMPIO DEL DIO DISCENDENTE È uno dei più affascinanti di TULUM. Le pareti sono volutamente deformate, facendole restringere verso il basso, per qualche motivo ancora ignoto.
Fu eretto in cima a un altro tempio di cui rimane il basamento. Nella nicchia posta nella parte superiore della porta si trova una scultura che rappresenta un Dio che scende dal cielo, con le ali, una corona sul capo e un oggetto tra le mani, forse un uovo.
Il tempio era decorato, all'interno e all'esterno, con numerose rappresentazioni di divinità in pittura murale, che purtroppo non possiamo ammirare a causa della corrosione del tempo.
IL PALAZZO DEL GRAN SIGNORE E IL DIO DISCENDENTE DI TULUM
Il "Palazzo del Gran Signore" della città Maya di Tulum, penisola dello Yucatàn, regione di Quintana Roo, Messico, edificata fra il VI e l'XI secolo d.C., affacciata su una scogliera alta 12 metri.
Il "Grande Palazzo" (o "Palazzo del Gran Signore") è indicato come la Casa dell'Halach Uinic (o "Grande Signore", Capo di una comunità). Il suo ingresso porticato a quattro colonne è sovrastato dall'onnipresente fregio di stucco raffigurante il Dio Discendente caratteristico di questa città; il portale si apre su un muro di pietre irregolari ed è sorretto da un'architrave; è alto circa 3 metri (gli edifici di Tulum non sono di imponenti dimensioni); il grande cortile anteriore potrebbe aver ospitato piccole strutture. La sua pianta è a forma di “L” e fa pensare che il lato ovest sia stato aggiunto in un secondo momento. La stanza più grande all'interno ha un santuario al centro del muro, il cui retro sporge verso l'esterno attraverso il muro nord. Le altre tre stanze hanno lunghe panchine, le finestre sono sbarrate con un segno di pietra a forma di “X” e stucco. Le due finestre interne hanno anelli di pietra, una caratteristica comune per ricevere un'asta di legno da cui erano appese le tende. Il lato ovest ha la sua ampia porta che si apre a nord e si collega con il resto del palazzo attraverso una porta interna. Il tetto di paglia originale sopra l'ingresso del patio potrebbe essere stato simile a quello mostrato. ALACH UINIC è un aggettivo che in lingua maya yucateca significa "vero uomo" (dunque "vero Signore") e indica lo status rappresentativo di una dinastia ereditaria.
L'altorilievo in stucco sopra l'ingresso dell'edificio ritrae il famoso "Dio Discendente", caratteristico della città di Tulum e presente nei fregi di tutte le sue strutture. Si pensa che questa divinità rappresenti il tramonto del pianeta Venere, la Stella del Mattino, che annuncia l'alba. Gli ingressi dei templi e delle abitazioni sono, infatti, tutti rivolti nella direzione in cui si verifica il tramonto di questo pianeta.
La divinità è raffigurata mentre discende dal cielo, con il volto ritratto frontalmente, le gambe divaricate sopra le spalle, ali con piume in forma molto stilizzata, corona sulla testa. La statuetta presenta tracce di colori molto accesi: dall'azzurro, al rosso, al giallo ocra. La postura innaturale dell'immagine nel suo complesso, ricorda lo stile artistico della costa nord-occidentale canadese della cultura Haida e quello simile della Cina arcaica, in cui le figure venivano sdoppiate, aappiattite e distese in modo che nessun dettaglio potesse essere nascosto. Le dimensioni del manufatto, purtroppo, sono assenti ovunque, ma date le dimensioni non imponenti del portale e degli edifici di Tulum, potrebbe aggirarsi intorno al metro e mezzo di altezza.
Incensiere in ceramica policromo raffigurante "il Dio Discendente", proveniente dalla città Maya di Dzibanchè, penisola dello Yucatàn, regione del Quintana Roo, Messico; fondata nel V secolo d.C. Altezza: 27 cm. Datazione: Periodo Post-Classico, circa 1.200 d.C.
Lo stile di questi manufatti in ceramica del Periodo Post-Classico è stato definito dall'antropologo Robert Smith, nel 1971, "Chen Mul", dal nome del "Tempio del Chenote" (Chen Mul: "altura del pozzo") della città di Mayapàn, dove si sono scoperti la maggior parte degli incensieri e delle urne ritraenti divinità a figura intera. A Mayapàn, in particolare, si sono scoperte le più grandi varietà di rappresentazioni.
Il personaggio è raffigurato come un Dio che scende dal cielo, recante un fiore fra le mani (simbolo di rinascita), con le gambe divaricate dietro le spalle, la corona sul capo, due dischi di giada alle orecchie ed un rassicurante sorriso sul volto ritratto frontalmente.
Gli incensieri erano utilizzati in varie cerimonie sacre; all'interno veniva bruciato l'incenso di Copale: resina prodotta dagli alberi della famiglia delle "Burseraceae".
Il presente manufatto reca tracce di colori che all'epoca dovevano essere molto vividi: il colore blu era ottenuto mescolando a caldo il pigmento indaco (non adatto alla pittura) con una particolare argilla, risolvendo in questo modo il problema dell'incompatibilità; il rosso è composto da ossido di ferro (o ocra rossa). Il rosso rappresenta il sole e l'oriente, il blu è il colore del sacrificio e del dio della pioggia. Il Dio Discendente si identifica con il tramonto del pianeta Venere (o Stella del Mattino, Lucifero), che avviene poco prima dell'alba e annuncia il sorgere del sole.
Il culto di questa divinità (detta "Dio Discendente") si ritrova specialmente nella città di Tulùm, sempre nella regione di Quintana Roo, Messico.
(Museo Maya della città di Cancùn, Messico)
IL TEMPIO DELLE SETTE BAMBOLE DI DZIBILCHALTUN
"Tempio delle Sette Bambole", città maya di Dzibilchaltùn, penisola dello Yucatàn, nei pressi della città di Merida, Messico. Larghezza e altezza entrambe di circa 15 metri. Datazione: VIII secolo d.C. Il Tempio è notevole perchè unico tempio maya dotato di finestre (4 finestre e 4 porte trapezoidali sulle pareti da est a ovest) e una torre, invece del tradizionale tetto a pettine, o "cresteria" (fastigio a motivi ccontinui in muratura traforata, che si leva al di sopra del Tempio con funzione essenzialmente decorativa).
Sette ninnoli (soprannominati "bambole", da cui il nome del Tempio) in terracotta sono stati scoperti in una cavità del pavimento profonda 1 metro, nella stanza centrale dell'edificio. La struttura è conosciuta anche come "Tempio del Sole", per l'allineamento con la luce del sole al solstizio di primavera. Con i 4 punti cardinali aperti (le 4 porte), il tetto aperto della torre (lo Zenit) e il nascondiglio delle bambole (il Nadir), il Dio del Sole conferma la sua rinascita quando i suoi raggi illuminaano il suolo della camera centrale, proprio sopra il ricettacolo dove sono sepolte le 7 bambole. Questo evento per i sacerdoti-sciamani indicava l'inizio dei rituali di semina nel Tempio.
"Il motivo per cui i cicli dei corpi celesti dovevano essere osservati in momenti dedicati dai sacerdoti-sciamani era che, poichè gli dèi e le divinità erano create dalla mente, rispondevano come gli umani all'abbandono, al disprezzo e alla rabbia. Il monitoraggio del ripetersi degli eventi naturali era associato a divinità create dalla mente, padrone delle stagioni e della sussistenza delle persone". (Georges Fery: "Buried power. The Seven dolls at Dzibilchaltùn")
Nel 1942, i ricercatori notarono diversi pezzi di muratura intatta che sporgevano da un grande mucchio di macerie all'estremità orientale di Sacbè-1 (strada bianca). Ciò fece loro pensare che una struttura potesse essere sepolta al di sotto, e quello che trovarono fu una piattaforma piramidale completamente crollata. Per qualche ragione, intorno all'anno 700 d.C., il Tempio venne riempito di pietre e ricoperto da un altro edificio più grande in cima. I resti del secondo edificio lo coprono ancora parzialmente sul lato ovest. Il tempio delle 7 Bambole di Dzibilchaltùn è in realtà costituito da 3 costruzioni consecutive sovrapposte. Il primo risale al 300 d.C. e fu riempito per costruire un secondo tempio, come si può vedere oggi.
"La struttura detta Tempio delle 7 Bambole in seguito alla scoperta di 7 statuette mostruose, è una costruzione eccezionale. Dzibilchaltùn le deve, in parte almeno, la propria fama. Il Tempio in sè non suscita emozioni estetiche particolari, ma è fonte di immensso stupore per il visitatore imbevuto di architettura maya: innanzitutto per la pianta quadrata, assolutamente unica, poi per la presenza di finestre ai due lati della porta principale. Nessun edificio maya comporta la presenza di finestre" (Dal libro "Città Mayaa" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 174)
"Il Tempio ha 4 fnestre, insolite nei templi maya, con 2 porte trapezoidali su entrambe le pareti est e ovest...Le finestre potrebbero essere state utilizzate per osservare il sorgere di altri corpi celesti legati al calendario sacro Tzolkin di 260 giorni". (Georges Fery: "Buried power: the Seven Dolls at Dzibilchaltùn)
LE 7 STATUETTE DI TERRACOTTA DEL TEMPIO DI DZIBILCHALTUN
Le 7 "bambole" (statuette), sono alte circa 10 cm.; furono depositate all'interno di una cavità profonda 1 metro nella pavimentazione della stanza centrale, proprio nel punto che, al solstizio di primavera, viene illuminato dai raggi del sole a mezzogiorno. Le 4 porte sui lati est e ovest rappresentano l'apertura dei 4 punti cardinali; la torre con il tetto aperto indica lo Zenit, mentre il pozzo in cui erano sepolte le bambole, proprio nel pavimento della stanza centrale, il Nadir. A mezzogiorno del solstizio di primavera, il sole illumina il ricettacolo delle bambole annunciando la sua rinascita. Questo evento ha preannunciato ai sacerdoti-sciamani l'inizio dei rituali di semina nel Tempio. Il Tempio è conosciuto anche come "Tempio del Sole", appunto per l'allineamento dei suoi ingressi all'equinozio di primavera, quando i raggi del sole attraversano le aperture, alte circa 3 metri.
Fondamentale importanza riveste il numero delle statuette sepolte: 7, che nella cultura rappresenta l'intima essenza di tutte le cose, fulcro del loro potere in divenire. Infatti, il cuore della spiga del mais (alimento fondamentale per le civiltà precolombiane), associato al numero 7, rappresenta anche il centro del cuore umano (come descritto a pag. 113 del libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff), mettendo in relazione il mito della resurrezione ciclica del Dio del Mais alla rinascita dell'anima umana nella correlazione universale delle leggi del Cosmo.
Le statuette, sepolte nella parte centrale, quindi nel "cuore" del Tempio, potrebbero aver avuto una funzione intermediaria fra l'umanità e le forze del Cosmo; il loro aspetto rozzo non è un elemento dovuto ad imperizia e potrebbe essere rappresentazione non di qualcosa di deforme in riferimento a malattie da curare o difetti fisici, ma di qualcosa che ancora non ha preso forma, che l'avvento dell'equinozio di primavera, come simbolo di trasformazione, è destinato a far emergere dall'oscurità.
Foto 2: disegno di Bates Littlehales (fotografo che collaborò con National Geographic, nato nel 1927). "Ricostruzione della camera interna; gli uomini stanno per deporre le 7 bambole nel foro davanti all'altare; le due piccole coppe sul gradino sotto l'altare (in realtà non trovate) sono simili ad una nascosta sotto il pavimento nel lato ovest". (Didascalia dell'autore)
1576: primo resoconto storico alle rovine della città maya di Copàn, Honduras, fondata nell'anno 426 d.C., nella lettera al Re di Spagna dell'esploratore spagnolo DIEGO GARCIA DE PALACIOS (1540-1595).
"Carta dirigida al Rey de Espana", da Recueil de documents et mémoires originaux sur l'histoire des possessions espagnoles dans l'Amerique", Parigi, Ternaux-Compans, 1840, pagine 42-44
Foto: versione integrale della lettera nel libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff (1970), pagine 177-178
"Poco distante, sulla strada di San Pedro, si trovano, nel primo villaggio della provincia di Honduras, che si chiama Copàn, rovine di splendidi edifici i quali dimostrano che vi esisteva un tempo una grande città, quale non è presumibile che genti grossolane come i nativi del luogo abbiano mai potuto costruire. Essa era situata in riva a un bel fiume e in una piana aperta e molto ben scelta. La pianura è assai fertile, il clima è temperato e vi si trova selvaggina in abbondanza. Frammezzo a tali rovine, vi sono alberi che sembrano essere stati piantati dalla mano dell'uomo e altre cose notevolissime. Prima di giungervi, si trovano muraglie molto spesse, e un'enorme aquila in pietra; essa reca sul petto un quadrato, di cui ciascun lato misura circa un quarto di vara e sul quale vi sono dei caratteri sconosciuti. Quando ci si avvicina maggiormente, si trova la figura di un grande gigante in pietra; i vecchi indigeni dicono che era il guardiano del santuario. Più avanti, c'è una croce di pietra di tre palmi d'altezza, di cui un braccio trasversale è spezzato. Si trovano poi edifici in rovina, le cui pietre sono scolpite con molta arte, e una statua di più di 4 vara di altezza che somiglia a un vescovo nei suoi paramenti pontificali, con una mitra assai ben lavorata e un anello al dito. Poco distante è una grande piazza circondata da gradini, che somiglia alla descrizione che si fa del Colosseo di Roma. Vi sono, in alcuni punti, fino a 80 gradini di elevazione, tutti ammattonati e costruiti in bella pietra assai ben lavorata. Vi sono 6 statue: tre rappresentanti uomini con armature a mosaico, con nastri attorno alle gambe; le loro armi sono disseminate di ornamenti; le altre, rappresentanti donne con lunghe vesti e acconciature alla romana. La statua del vescovo tiene fra le mani un pacchetto che somiglia a un cofanetto. Sembra che queste statue fossero idoli, poichè dinanzi a ciascuna di esse è una pietra simile a quelle che servono per i sacrifici, con una fossetta per far colare il sangue. Si vedono ancora gli altari sui quali si bruciavano i profumi. Vi è al centro della piazza un bacino di pietra che, a quanto sembra, serviva per battezzare, e nel quale facevano in comune i loro sacrifici. Dopo aver attraversato la suddetta piazza, si incontra una elevazione sulla quale si sale per un gran numero di gradini; è là, senza dubbio, che celebravano i loro riti e le loro mitotes (o feste). Sembra che fosse stata costruita con la più gran cura, poichè vi si trovano ovunque pietre assai ben lavorate. Accanto , vi è una torre o terrazza assai elevata, la quale domina il fiume che scorre ai suoi piedi; una gran falda di muro è crollata e ha lasciato allo scoperto l'ingresso di due sotterranei assai lunghi e assai stretti e molto ben costruiti. Non ho potuto scoprire con quale intento nè a che scopo abbiano potuto servire. Vi è una scala che scende fino al fiume per un gran numero di gradini. Vi si vedono ancora molte altre cose, le quali dimostrano che questo paese un tempo è stato abitato da una numerosa popolazione civilizzata e alquanto progredita nelle arti. Ho cercato in tutte le maniere possibili di sapere dagli Indiani da chi questo monumento fosse stato costruito, e tutto ciò che ho potuto cavarne interrogando i loro vecchi, poichè in tutto il paese non resta più neppure uno dei loro antichi libri, e l'unico che io conosca è in mio possesso, tutto ciò che ho potuto cavarne, dicevo, è che tali edifici sono stati costruiti da un potente signore venuto dallo Yucatàn, il quale in capo a qualche anno è tornato al suo paese, lasciandolo completamente deserto. E' ciò che vi è di più verosimile, poichè la tradizione dice che gli Indiani dello Yucatàn hanno un tempo conquistato la provincia di Ayatal, Lacandòn, Verapaz, Chiquimula e Copàn. Sembra anche che gli edifici somiglino a quelli che i primi spagnoli hanno scoperto nello Yucatàn, dove c'erano figure di vescovi e di uomini armati, oltrechè croci".
"Avendo terminato di costituire la detta armata, il detto capitano delle Vostre Altezze Reali, Fernando Cortèz, si partì dalla detta isola Fernandina, per proseguire nel suo viaggio con dieci caravelle e quattrocento uomini d'arme, tra i quali molti a cavallo e sedici cavalieri; proseguendo nel viaggio, la prima terra alla quale giunsero fi l'isola di Cozumel, che si chiama ora Santa Cruz, come abbiamo detto più sopra, nel porto di San Juan de Porta Latina; sbarcando trovammo il villaggio abbandonato, come se non fosse mai stato abitato da alcuno. E il detto capitano Fernando Cortez, desiderando sapere qual'era la causa di quell'abbandono, fece scendere gli uomini dai vascelli; i quali si insediarono nel villaggio; essendo là con i suoi uomini, apprese da tre indiani catturati in una piroga sul mare che si recavano all'isola di Yucatàn, che i cacicchi di quell'isola, vedendo arrivare gli Spagnoli, avevano abbandonato il villaggio e se n'erano andati con tutti i loro Indiani nei boschi, per timore di quegli stessi Spagnoli, poichè non conoscevano nè le intenzioni nè la volontà di coloro che venivano su quei vascelli; e il detto Fernando Cortez, parlando loro pel tramite di un intermediario che aveva condotto con sè, disse loro che non avrebbe fatto del male ad alcuno".
1519- Hernan Cortès: (1485-1547, condottiero e aristocratico spagnolo) "Lettere di Ferdinando Cortes al Serenissimo ed Invittissimo Imperatore Carlo V intorno ai fatti della Nuova Spagna o Messico".
Foto dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 177
"Da Palenque, ultima località di Ciudad Real de Chiapas, si sale camminando verso sud-ovest, attraverso una catena di montagne che separa questo regno del Guatemala da quello dello Yucatàn e di Campeche; dopo due leghe di cammino, si giunge al ruscello chimato Michol, le cui acque sorrono verso occidente fino a confluire nel grande fiume Tulija, che convoglia le sue alla Provincia di Tabasco. Passato il ruscello, si continua a salire, e una mezza lega più innanzi si attraversa un piccolo corso d'acqua chiamato Ototun, che si congiunge al precedente. E' qui che si cominciano a scoprire ammassi di rovine, la qual cosa fa sì che la marcia diventi assai scomoda per la mezza lega successiva, fino al punto in cui sono situate le Case di Pietra; queste si riducono a quattordici, più o meno in rovina, ma che conservano tuttavia, in maniera assai visibile, la maggior parte delle loro stanze. Una superficie rettangolare di trecento aune di larghezza per un'estensione di quattrocentocinquanta, comprende il terrapieno ai piedi del monte più elevato della catena. Essa forma una piazza e vi si vede, situata come al centro, la casa più grande e più spaziosa fra tutte quelle che vi si sono riconosciute. Essa è posta su un'elevazione, o collina, di venti aune di altezza e, attorno, si vedono le altre, che sono disposte alla maniera seguente: cinque a nord, quattro a sud, una a sud-ovest e tre a levante, avendo cura di osservare che vi sono da ogni parte resti di altre case o di edifici crollati, questi ultimi estendendosi soprattutto lungo la montagna che corre da levante a occaso, fino alla distanza di tre o quattro leghe da ciascun lato; di sorta che si può dire che l'estensione totale di questa città in rovina comprende da sette a otto leghe di lunghezza, ma la sua larghezza non corrisponde a tale estensione ed è forse, più o meno, di una mezza lega al punto in cui cessano le rovine, vale a dire fino al ruscello Michol che scorre ai piedi della montagna. (...) A forza di perseveranza, ho fatto tutto ciò che era necessario, di sorta che non esiste più una sola finestra o porta bloccata, una tramezza che non sia stata perforata, una stanza, un corridoio, un cortile, una torre o un passaggio sotterraneo, nei quali non sia stato praticato uno scavo profondo da due a tre vara".
1787- rapporto del capitano Antonio del Rio (1745–1789) che guidò i primi scavi alle rovine della città Maya di Palenque, in Messico, datate dal 226 all'800 d.C. Il sito fu inizialmente denominato "Case di Pietra", i seguito prese il nome del vicino villaggio di Palenque. La spedizione fu intrapresa nel 1787 per conto del Re Carlo III di Spagna.
Foto dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 179-180.
"Accompagnato da alcuni degli abitanti della località, Indiani e meticci, mi recai alla città in rovina che si trova a tre leghe di qui, nel luogo chiamato Casas de Piedra, le Case di Pietra. Vidi innanzitutto otto case, di cui una che ho chiamata il Palazzo per la sua grandezza e la sua architetturaa. Poi, continuando ad aprirmi la strada fra i rovi, giunsi a un gran numero di altre case e palazzi, meno sontuosi del primo, ma passando fra molte colline e spesso arrampicandomi. Trovai tali edifici, situati ai quattro venti rispetto al Palazzo, nel corso dei tre giorni che durò la ricognizione e nell'ordine in cui li ho annotati; la maggior parte dà a sud di quella che sarebbe stata la residenza reale. Il sito che occupano tali edifici è impraticabile, tanto per lo spessore della foresta, quanto per i precipizi che li circondano. Non può essere meno di tre o quattro secoli che questa città è stata abbandonata, poichè vi sono già molte case che hanno sopra di esse alberi di tre o quattro aune di grossezza. (...) Non trovo alcuno qui che possa darmi ragione di ciò che questa città è stata. E' un'opera enorme, delle più sontuose, benchè rozza, e di una grande bellezza. Le figure sono scolpite con molta abilità nei di muri questi palazzi che sono tutti in pietra. Vi sono molte figure umane abbigliate con vesti e piumaggi strani, donne con i loro bimbi tra le braccia e di grandezza gigantesca; molti scudi e un genere di iscrizioni o di stemmi che si trovano in un palazzo, di fronte alla porta; e quella torre che si vede là, incompiuta, nel grande Palazzo, e dal sommo del quale si scorgono i campi e le lagune di tutto questo paese. Plutarco, a quanto si dice, riferisce che i Romani portavano mezzelune sui calzari, asserendo con ciò l'immortalità dell'anima. Sarebbero essi Romani, quelli che regnavano qui? Ovvero Spagnoli giunti al tempo della dominazione dei Mori fino al porto di sbarco di Catasaja, ovvero ancora quei Cartaginesi che, si dice, vennero in America? Non ne so nulla".
1784: Rapporto di Josè Antonio de Calderòn (ufficiale locale della Corona spagnola) e dell'architetto lombardo Antonio Bernasconi (1710-1785) sull'esplorazione della città maya di Palenque, Chiapas, Messico, fondata nel 500 d.C., agli inizi denominata "Casas de Piedra", in seguito indicata con il nome del vicino villaggio di Palenque. Don Josè Calderòn e Bernasconi visitano la regione e redigono un rapporto nel 1784, precursori dei viaggiatori che in seguito avrebbero mosso i primi, incerti passi sulla strada di questa nuova archeologia.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 179
"L'ottavo giorno del mese di febbraio dell'anno 1517, lasciammo l'Avana dal porto di Axaruco che è dalla parte settentrionale, e in dodici giorni doppiammo la punta di Sant'Antonio che nell'isola di Cuba si chiama Terra dei Guanahataveyes, che sono Indiani selvaggi. E, superata questa punta, arrivati in alto mare, navigammo alla ventura verso il sole calante, senza sapere quali fossero i venti e le correnti che dominavano a quella latitudine, con gravi rischi per le nostre persone, poichè in quella stagione ci colse una burrasca che durò due giorni e due notti, e così forte che per poco non perimmo: tornata la bonaccia, proseguendo nella nostra navigazione, ventun giorni dopo la partenza scorgemmo terra e ce ne rallegrammo, rendendo grazie a Dio per ciò. Quella terra non era mai stata scoperta e fino ad allora non se ne aveva mai avuto notizia alcuna; dai vascelli scorgemmo una grande città, a due leghe circa di distanza, e avvedendoci che era una grossa agglomerazione e che non avevamo visto alcunchè di simile nè nell'isola di Cuba nè in quella di Hispaniola, le demmo il nome di Grande Cairo".
Cronaca della conquista del Messico di Bernal Diaz del Castillo (1492-1584) dal 1517 al 1568, intitolata "Historia verdadera de la conquista de Nueva Espana" (foto: edizione del 1632). Il brano qui pubblicato descrive l'avvistamento, sulla costa settentrionale dello Yucatàn, provenendo dall'isola di Cuba, di un luogo densamente abitato a cui gli esploratori diedero il nome di "Grande Cairo". (Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 177)
"Nello Yucatàn vi sono molti edifici di grande bellezza, il che è la cosa più degna di nota delle Indie, tutti in pietre taagliate molto ben lavorate, senza che in tali costruzioni entri alcuna specie di metallo. I suddetti edifici sono assai vicini gli uni agli altri e sono templi; e sono in gran numero a cagione dei frequenti spostamenti della popolazione; in ogni centro costruivano un tempio con un grande assortimento di pietre, di calce e con una certa terra biamca, ottima per la costruzione. Tali edifici non sono fatti da altre nazioni, ma da questi Indiani e ci se ne può rendere conto con gli uomini di pietra, nudi, ma resi onesti dai lunghi panni che essi chiamano Exx e da altre cose particolari che gli Indiani portano". (Brano da "Historia de las cosas de Yucatàn"-1560- di Diego de Landa, dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagina 88)
"La speranza di chiarire tutti i punti oscuri di questa civiltà si accrebbe ancora quando, nel 1869, l'infaticabile abate francese Brasseur de Bourbourg, scoprì nella Biblioteca Reale di Madrid la "Relaciòn de las Cosas de Yucatàn". Si trattava di un'opera redatta aall'indomani della conquista spagnola di PAdre Diego De Landa, un frate che fu il primo vescovo di Mèrida (Yucatàn). Le cronache contenevano informazioni etnografiche di valore inestimabile, nonchè descrizioni e disegni della scrittura geroglifica usata dagli Indios dello Yucatàn nel XVI secolo. Ironia della storia, padre De Landa si vaantava nelle sue pagine di aver bruciato tutti i libri indigeni redatti con tale scrittura, aal fine di condurre più facilmente in seno alla chiesa cattolica la popolazione india dello Yucatàn. Il ssuo fanatismo aveva ridotto in cenere tutti i preziosi manoscritti dipinti, custodi e simboli di un'intera civiltà. Il desiderio di spiegare questo suo gesto lo indusse a redigere la sua cronaca: involontariamente, salvava così dall'oblio alcuni elementi fondamentali di una delle più importanti culture indie dell'America. L'interesse suscitato dalla scoperta del manoscritto del XVI secolo fu tanto più grande, in quanto i caratteri geroglifici in esso riprodotti da padre De Landa erano simili ai caratteri scolpiti sui monumenti rinvenuti e inventariati dall'esploratore americano John Lloyd Stephens e degli esploratori che lo seguirono nella foresta vergine dei territori del sud. Si avevano in tal modo prove indiscutibili della profonda parentela culturale esistente tra i misteriosi costruttori delle città perdute della jungla e gli Indios che popolavano nel XVI secolo la penisola messicana; parentela accentuata dall'affinità delle caratteristiche fondamentali tra gli edifici dimenticati delle foreste del su e i monumenti abbandonati dello Yucatàn". (Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pag.10-11)
"Nel 1549, sette anni dopo la parziale conquista degli Indios Maya dello Yucatàn, padre Diego De Landa arriva a Merida, capitale dei territori. Si sforza con tutti i mezzi di estirpare le costumanze e le credenze del popolo che lo circonda, per convertirlo al Cattolicesimo. A tale scopo egli giunge a servirsi di un procedimento che ritiene efficacissimo: un gigantesco auto-da-fè, in cui vengono bruciati tutti i libri indigeni. La storia , la cultura, laa tradizione di un popolo vengono in tal modo distrutte. Questo gesto inconsulto, irreparabile, sarà nonostante tutto minimizzato dal suo autore, che del resto non ne coglie la gravità. Nel 1566, padre De Landa redige la "Relaciòn de las Cosas de Yucatàn". Egli, e l'abbiamo già fatto notare, riproduce nella sua opera certi glifi calendari e segni ancora in uso nello Yucatàn al tempo del suo ministero. Li ha visti disegnati nei libri cosiddetti blasfemi che ha fatto bruciare e ce ne fornisce la trascrizione. L'opera di distruzione di padre De Landa è stata purtroppo eseguita alla perfezione. Possediamo soltanto tre codici maya, tutti e tre scoperti in Europa, dove con tutta probabilità sono stati spediti da monaci o soldati al momento della conquista. Si tratta del Codex Dresdensis, del Codex Tro-Cortesianus e del Codex Peresianus". (Dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagina 177)
Brano da "Historia de las cosas de Yucatàn" (1560) di Padre Diego de Landa (1524-1579), vescovo cattolico della città di Mèrida, Messico. Inquisitore e distruttore delle grandi biblioteche dei templi della civiltà Maya, De Landa causò gravissimo danno e perdita al patrimonio universale di conoscenza dell'umanità ma, paradossalmente, in età più matura, si dedicò molto allo studio del sistema di scrittura, alla storia e alle tradizioni della cultura maya, divenendo la principale fonte a cui attinsero i ricercatori dei secoli successivi.
I libri maya erano conservati in biblioteche dette "Amoxcalli" ("Casa dei libri", da "amoxtli", libro, e "calli", casa): locali nei templi e negli edifici sacri adibiti alla conservazione dei Codici scritti e disegnati da scribi specializzati.
I libri (o codici) consistevano in fogli formati da strisce di corteccia di Ficus Citinofolia, battute, impregnate di resina, ricoperte da sottile strato di calce.
"Questi danzatori sono tutti abbigliati come bestie, con pelli dipinte di leoni, di tigri o di lupi, e sulla testa portano acconciature che devono rappresentare la testa delle suddette bestie. Altri portano teste d'aquila o di uccelli rapaci dipinte, e nelle mani hanno bastoni, carte, spade, asce con le quali sono chiamati a uccidere la bestia cui danno la caccia. Altri, anzichè cacciare una bestia, cacciano un uomo, come le bestie devono cacciare un uomo per ucciderlo. (...) E' un trattenimento assai rude, e pieno di grida terribili e spaventose, che io non ho mai apprezzato".
Brano tratto da "Travels in the New World" (1648): diario di viaggio del frate domenicano inglese Thomas Gage (1597–1656), scritto durante il suo soggiorno durato più di dieci anni nella Nuova Spagna e l'America Centrale, in cui osserva da vicino la società e la cultura dei popoli nativi. (Foto: edizione olandese del 1700)
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagina 178
"Ecco dichiarato, dimostrato e apertamente concluso, dal capitolo 22 sino alla fine di tutto questo libro, che tutte quelle genti sono delle nostre Indie (...) e che avevano le loro repubbliche, i loro luoghi, i loro borghi e le loro città sufficientemente vettovagliate e abbondanti, senza che mancasse chechessia sul piano politico e sociale (...); gli uni avevano di più, gli altri di meno, e molti avevano di tutto alla perfezione, poichè sono tutti assai vivaci e franchi e di una grandissima comprensione".
Fray Bartolomè de las Casas (1484-1566): brano da "Apologetica História Sumária" (3 volumi), principale opera "di antropologia culturale" di Las Casas, composta in spagnolo, iniziata nel 1527, come parte della História de Las Índias, ma divenne successivamente una opera autonoma conclusa solo nel 1560.
Nato a Siviglia nel 1484, morto a Madrid nel 1566, detto "l'apostolo delle Indie", insigne tra i più grandi e benemeriti missionarî d'America e dell'ordine dei predicatori. Las Casas andò per la prima volta in America nel 1502 con la spedizione di Ovanda; e sembra che nei primi otto anni della sua dimora a S. Domingo egli si comportasse verso gl'indigeni né più né meno come gli altri coloni. Un sermone del domenicano Antonio Montesinos (1475-1540) trasformò radicalmente la sua anima e la sua vita. Nel 1510 prese gli ordini sacri (era già addottorato in diritto a Salamanca), e d'allora iniziò il suo apostolato di evangelizzazione e di tutela, denunziando al governo gli eccessi e le crudeltà degli Spagnoli, e spesso anche, quando accompagnò spedizioni di conquista, interponendosi direttamente fra i soldati e gl'Indiani, acquistandosi così presso questi ultimi un prestigio e una venerazione che si conservarono a lungo dopo la morte. (Fonte: enciclopedia Treccani)
Celebre la sua affermazione rivolta a coloro che non consideravano i Nativi come figli di Dio:
"Tutta questa gente di ogni genere fu creata da Dio senza malvagità e senza doppiezza alcuna".
"Don Bartolomè, fratello dell'ammiraglio (Cristoforo Colombo), se ne scese a terra per riconoscere le genti e vide venire da occidente una piroga di mirabili dimensioni con venticinque Indiani che alla vista dei vascelli dei nostri Spagnoli nè si diedero alla fuga, nè si apprestarono a difendersi, tanto timore ebbero di genti sì nuove per loro. La piroga giunse in vista dell'ammiraglio, il quale fece salire a bordo gli Indiani con le loro donne e i loro bambini. Si rivelarono pudichi e onesti, poichè, se si toglievano loro le vesti di cui erano coperti, si ricoprivaano immediatamente: il che piacque molto all'ammiraglio e a coloro che erano con lui. (...) Questi Indiani erano del reame dello Yucatàn, poichè a est v'era il golfo di Guanajos, e dall'isola in cui si trovava l'ammiraglio (che egli chiamò Isola dei Pini a cagione della quantità di tali alberi) c'erano un po' meno di trenta leghe; siccome venivano da occidente, era certo che fossero dello Yucatàn, poichè non vi sono altre terre donde avrebbero potuto naavigare in tutta sicurezza in un'imbarcazione così piccola, benchè per essere una piroga fosse alquanto grande, poichè misuravaa otto piedi di larghezza".
Brano tratto da "Historia de Yucatàn" dello storico e missionario francescano Diego López de Cogolludo (1613-1665): opera manoscritta di 500 pagine, pubblicata per la prima volta nel 1688, ricca di informazioni preziose da fonti che all'epoca erano ancora disponibili, soprattutto quelle orali dagli anziani indigeni che furono fino ad allora tramandate di generazione in generazione, ed anche alcune scritte, successivamente scomparse. Fray Cogolludo giunse in Yucatàn nel 1634, morì a Merida nel '65. Fu teologo e Guardiano del suo Ordine (cioè frate capogruppo di coloro che venivano inviati in missione apostolica). Conobbe molto bene la lingua maya e le costumanze dei popoli Nativi.
Nota: nel brano è citato Don Bartolomeo, figlio di Domenico Colombo e di Susanna Fontanarossa, nato a Genova nel 1460, morto nel 1514 a Santo Domingo, è il terzo fratello del ben più noto Cristoforo Colombo. Si trasferì con quest'ultimo in Portogallo, dopo il 1480.
"Abbiamo qui i ricordi di un popolo colto, brillante, singolare, che è passato per gli stadi di sviluppo e di declino degli altri popoli, che ha avuto la sua età dell'oro, poi è scomparso, completamente ignorato. Gli anelli della catena che lo collegano alla famiglia degli uomini sono andati perduti e si sono spezzati; qui, abbiamo soltanto monumenti commemorativi del loro passaggio in terra. Abbiamo vissuto nel palazzo in rovina dei loro re, ci siamo arrampicati verso i loro templi desolati e i loro altari demoliti; ovunque abbiamo avuto le prove del loro gusto, della loro abilità artistica, della loro ricchezza e del loro potere. Fra le rovine desolate, abbiamo guardato al passato che emergeva dall'oscurità della foresta, abbiamo immaginato ogni edificio in perfetto stato, con le sue terrazze e le sue piramidi, le sculture, le decorazioni dipinte, grande, fiero, imponente e torreggiante su tutta una zona abitata. Abbiamo richiamato in vita il popolo sconosciuto che ci fissava con tristezza dai muri; l'abbiamo disegnato con i suoi costumi pieni di fantasia, ornati di pennacchi di piume, nell'atto di salire sulle terrazze dei palazzi e lungo le scale che conducevano ai templi. (...) Nel romanzo della storia del mondo, nulla mi ha impressionato quanto lo spettacolo di questa città insieme bella e affascinante, sconvolta, desolata e perduta, scoperta per caso, invasa da alberi per un raggio di chilometri e chilometri tutt'attorno, e la quale non ha neppure ricevuto una denominazione che valga a distinguerla. Un'altra cosa è importante notare: i geroglifici sono gli stessi (a Palenque) di quelli incontrati a Copàn e Quiriguà. La zona che separa questi siti è attualmente occupata da razze di Indiani che parlano lingue diverse e che non si comprendono assolutamentre tra loro; ma si ha modo di credere che questo paese sia stato un tempo occupato da una stessa razza, che parlava la stessa lingua e possedeva perlomeno gli stessi caratteri di scrittura".
Brano dal libro "Incidenti di viaggio in America Centrale, Chiapas e Yucatàn" (1839), di John Lloyd Stephens (1805–1852), esploratore, scrittore e diplomatico statunitense, nato nel New Jersey. Stephens fu una figura fondamentale nella riscoperta della civiltà Maya in Messico e in tutto il Centro America. Ricevette un'istruzione classica in scuole private, oltre a una laurea in giurisprudenza al Columbia College Litchfield; nel 1841 divenne membro dell'American Philosophical Society. Nei viaggi di indagine e ricerca sulla civiltà Maya in Centro America fu accompagnato dall'architetto e disegnatore inglese Frederick Catherwood (1799-1854), che pubblicò a sua volta il libro "Views of ancient monuments in Central America, Chiapas and Yucatàn", corredato dalle sue illustrazioni a colori delle rovine maya.
Foto del testo da "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 180-181
Immagine in alto: edizione del libro "Incidents of Travel in Central America, Chiapas, and Yucatan" del 1843, presso il Metropolitan Museum, New York.
Civiltà Maya e Impero di Atlantide, di Guillermo Dupaix
"Quanto all'insediamento parziale della popolazione di Palenque, a una sana ragione non ripugna supporre che tale emigrazione venisse dalla parte orientale della terra e in provenienza dalla grande Isola Atlantide. (...) Non mi sarebbe difficile credere che tale trasmigrazione sia avvenuta prima, e durante, il cataclisma, quest'ultimo avendo concesso il tempo e i mezzi a una parte della popolazione di fuggire il prossimo grande pericolo; tali abitanti, costretti forse dai venti predominanti a seguire la direzione dell'Occidente, avrebbero portato con sè il seme delle arti che misero radice e presero piede in un clima favorevole, poi, col tempo, fiorirono e fruttificarono mirabilmente, come si può constatare nelle opere architettoniche e nella scultura. Ciò che prova la grande antichità delle opere d'arte è il grado magistrale cui sono pervenute, poichè è con grande lentezza che si propagano le arti e le scienze (senza ausilio, è ben noto che richiedono secoli)".
Brano da "Expediciones acerca de los antiguos monumentos de Nueva Espana" (1805-1808), di Guillermo Dupaix (1746-1817; vero nome Guillaume Joseph Dupaix), archeologo e antiquario lussemburghese, nato nel comune di Vielsalm, considerato un pioniere dell'archeologia precolombiana, intraprese la carriera militare nell'esercito spagnolo all'età di 14 anni, divenendo capitano del Reggimento dei Dragoni di Almansa dal 1790. Giunse in Messico nel 1791, rimanendovi per i successivi 27 anni. Si ritirò dall'esercito nel 1801 e nell'ottobre del 1804 il Vice-Re José de Iturrigaray lo incaricò di condurre tre spedizioni archeologiche allo scopo di documentare monumenti antichi e sculture. Ciò è stato fatto sotto il patrocinio del Re Carlo IV di Spagna. Queste spedizioni furono effettuate tra il 1805 e il 1807 tra le rovine di antiche città come Palenque e Mitla. In queste spedizioni Dupaix era accompagnato da una scorta di cavalleria e dall'artista del Museo Nazionale del Messico di nome Jose Luciano Castaneda (1774-1834) che realizzò illustrazioni delle antichità lungo il percorso.
Sopra: dipinto di Guillermo Dupaix della piattaforma di Cholula a Puebla, Messico, conosciuta in lingua maya come Tlachihualtepetl “montagna fatta a mano”. Ricoperta dal manto verde, risalente al periodo post-classico (dopo il 900 d.C.), alta 60 metri, alla sua sommità è stata costruita la chiesa di Nuestra Señora de los Remedios.
Foto del testo da "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 180
ANALOGIE NEI MITI COSMOGONICI DA ORIENTE AD OCCIDENTE, di Alexander von Humboldt
"Di tutte le linee di analogia che osserviamo nei monumenti, nelle morali e nelle tradizioni dei popoli di Asia e America, il più sorprendente è quello presentato dalla mitologia messicana nella finzione cosmogonica di distruzione e rigenerazione periodica dell'Universo. Questa narrativa, che lega il ritorno dei grandi cicli all'idea di un rinnovo della materia che si suppone indistruttibile, e che attribuisce allo spazio ciò che sembra appartenere solo al tempo, risale all'antichità. I libri sacri degli Indù, in particolare la Bhagavat Purana, parlano già delle quattro età, o cataclismi, che, in diverse epoche, hanno fatto perire la razza umana. Una tradizione di "cinque età" del mondo, analoga a quella messicana, si ritrova nella tradizione del Tibet. Se è vero che tale simulazione astrologica, che è divenuta la base di un sistema peculiare di cosmogonia, è dapprima nato nell'Hindustan, è molto probabile che, da là, attraverso l'Iran e la Caldea, esso passò ai popoli occidentali. Possiamo riconoscere una certa rassomiglianza con la tradizione indiana nei cicli Yugas e Kalpas degli antichi abitanti dell'Etruria, e queste serie di generazioni distrutte, caratterizzate da Esiodo con l'emblema dei quattro metalli".
Brano dal libro "Vues de Cordillères et monuments des peuples indigènes de l'Amérique" (pagine 134-135) di Alexander von Humboldt (naturalista tedesco, 1769-1859), scritto nel 1824: corpus di studi, memoranda, disegni ricostruttivi, teorie sulle civiltà precolombiane (Maya, Azteca e Inca) dell'autore, nel suo viaggio in Sud America. A. Von Humboldt fu uno dei più grandi naturalisti e geografi del mondo; i suoi interessi e la sua visione non si limitavano agli aspetti scientifici, ma si estendevano ad ogni ambito del pensiero: filosofico, storico, antropologico e sociale, secondo una concezione olistica della realtà. Fra i più grandi filosofi, scrittori e artisti del suo tempo furono influenzati dal suo pensiero: Charles Darwin, Edgar Allan Poe, Simon Bolivar (che frequentò), ecc...Fu amico di Goethe. Figlio di un ufficiale prussiano, dopo la morte del padre venne iscritto dalla madre, assieme al suo unico fratello, all'Università di Francoforte sull'Oder, uno dei più importanti istituti di Prussia. Studiò materie scientifiche, storiche, medicina, fisica e matematica. Terminò il percorso all'Università di Gottinga, con l'obiettivo di divenire esploratore e ricercatore. Approfondì gli studi di geologia e anatomia pubblicando opere in merito. Nel 1799 si imbarcò per il Sud America, ed ebbe come prima tappa il Venezuela, dove conobbe e frequentò Simon Bolivar; in seguito raggiunse l'Equador, poi il Messico. Transitò anche in Perù, dove studiò la civiltà Inca. Espresse la propria ripulsa per il sistema schiavistico della Nuova Spagna. Fra il 1827-'28 scrisse l'opera scientifica più importante: "Il Cosmo". Si battè eticamente contro colonialismo, schiavismo e abusi ambientali come deforestazioni, industrializzazione, ecc...potendosi permettere il dialogo con personaggi potenti grazie alla sua fama.
"Ho in mente un'idea: racchiudere in un'opera tutto il mondo materiale, tutto ciò che oggi sappiamo delle apparizioni della volta celeste e della vita sulla Terra". (Alexander von Humboldt)
Immagini:
Ritratto di Alexander von Humboldt di Friedrich Georg Weitsch, olio su tela, 1806.
Disegno dal libro "Vue de Cordillères": busto di sacerdotessa azteca
I GIGANTI NELLA MITOLOGIA DEI TLASCATECAS MESSICANI, di Lord Kingsborough
"Dobbiamo rilevare che la tradizione messicana, quando giunge a riferire lo stratagemma usato dagli antenati dei Tlascatecas per annientare i giganti, corrisponde singolarmente al resoconto fornito da Erodoto circa il modo in cui gli Sciti furono sconfitti dai Medi...Avendo d'altro canto dimostrato che i Messicani avevano rapporti con alcune delle tradizioni del libro apocrifo di Esdre, è quasi superfluo aggiungere che il contenuto del libro di Enoch e quello di altri libri apocrifi era ben noto in tempi antichi ai primi insediamenti ebraici in America".
Brano dall'opera "Antiquities of Mexico" (1831) di Lord Edward Kingsborough (1795-1837), erede primogenito di un conte irlandese, studiò all'Università di Oxford. Nel 1831, Lord Kingsborough pubblicò il primo volume delle "Antichità del Messico", una raccolta di copie di vari codici mesoamericani, inclusa la prima pubblicazione completa del Codice di Dresda. Antichità del Messico è una raccolta di riproduzioni in facsimile della letteratura mesoamericana come codici Maya, codici mixtechi e codici aztechi, nonché resoconti storici e descrizioni di esploratori di rovine archeologiche. Sebbene gran parte del materiale riguardi le culture precolombiane, ci sono anche documenti relativi agli studi sulla conquista spagnola dell'Impero azteco.
RIFERIMENTI MITOLOGICI DEL BRANO E ANALOGIE:
1- I Tlascatecas sono indigeni presenti nello stato messicano di Tlaxcala. Nella tradizione di questo popolo vi è la lotta degli Antenati contro mitici giganti (Quinametzin). L'antica leggenda dei Tlaxcaltecas del Messico, narra che la loro gente migrò da nord-ovest e conquistò una razza di giganti. Questi stavano “dimorando in caverne di roccia e armati di grandi mazze e spade di legno... I giganti avevano aspetto orribile e vivevano di ghiande ed erbe.” Il prete cattolico José de Acosta, 50 anni dopo la conquista spagnola del Messico (1521), registrò racconti degli Indigeni da lui intervistati che gli riferirono che "questi giganti abbattevano gli alberi come se fossero steli". I Tlascatecas si vantavano di aver sconfitto l'ultimo sopravvissuto dei Quinametzin.
2- Secondo lo storico greco Erodoto (484-425 a.C), i Medi sconfissero gli Sciti invitandoli in gran numero a un sontuoso banchetto, sino a farli ubriacare; una volta ebbri, ne trucidarono gran parte. Nel mito dei Tlascatecas l'ultimo gigante venne sconfitto con un simile stratagemma.
3- il Libro di Esdra è uno scritto presente nella Bibbia ebraica e cristiana, di autori ignoti della Giudea, datato dal IV al III secolo a.C.; narra il ritorno degli Ebrei dall'esilio di Babilonia e la successiva ricostruzione del Tempio (circa 538-515 a.C.), con l'opera restauratrice del sacerdote Esdra.
4- Libro di Enoch: è uno scritto apocrifo giudaico, risalente al I secolo a.C. Nel Libro di Enoch si narra di angeli che generarono dei giganti accoppiandosi con le donne presenti sulla Terra, cosa che fece infuriare Dio tanto da punire tutti i suoi "figli", sia divini che terreni.
LE TEORIE DI LORD EDWARD KINGSBOROUGH:
Lord Kingsborough rimase affascinato dal Bodley Codex (manoscritto della civiltà Mixteca, risalente al periodo precedente al 1521, data della conquista spagnola del Messico); contattò Agostino Aglio (1777-1857), pittore, disegnatore, incisore e litografo, nato a Cremona, che viveva a Londra, visitando assieme a lui le biblioteche di tutta Europa in cerca di codici e manoscritti delle civiltà precolombiane, cercando di dimostrare l'origine ebraica dei popoli messicani (ovviamente nell'ambito di una ricerca pre-scientifica, come molte altre risalenti alla stessa epoca che si rivelarono prive di fondamento). Il risultato furono nove volumi disegnati e dipinti da Agostino Aglio e descritti da Lord Kingsborough.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagina 180
Sopra: immagini dei volumi di "Antiquites of Mexico" (1831), copie dei quali sono conservate presoo le Librerie Reali di Parigi, Berlino e Dresda, nella Libreria Imperiale di Vienna, Libreria Vaticana e Museo Borgia di Roma.
"Scendendo a ovest della chiesa del villaggio di Palenque, su una vasta e ricca distesa erbosa, si scorge sulla destra, a una distanza di 1100 piedi, un albero assai curioso, il cui tronco slanciato si leva a più di 80 piedi sul livello del terreno prima di allargare i suoi rami, alti a loro volta da 30 a 40 piedi; le foglie dell'albero sono di un verde chiaro e splendente su un tronco liscio come quello del platano, e i fiori sono disposti a ciuffi di un bel giallo chiaro; non ne ho mai visto uno simile, tranne un'unica volta nell'immensa foresta delle rovine. Proprio a sinistra di tale raro e curioso vegetale, ha inizio il varco del sentiero che ho tracciato con l'ausilio della bussola e della catena, guidato del resto dal mio domestico, che aveva l'abitudine al tragitto dal villaggio alle rovine dove seminava ogni anno il suo raccolto di mais. (...) Attraverso l'ultimo ruscello si scala una ripida erta con una pendenza di 45 gradi. Qui iniziano le rovine, una grande quantità di pietre squadrate costellano il terreno, ma lo sconvolgimento è così completo che non è possibile determinare esattamente in quale tipo di costruzione tali pietre siano state impiegate: è lecito tuttavia supporre che formassero uno o più bastioni, di diverse altezze, destinati a vietare l'accesso alla città. Si attraversa tra l'altro una china di 60 piedi, talmente ripida, che un uomo a piedi ha grande difficoltà a superarla. Salendo, si ode sulla sinistra un rumore di cascata e, giunti in cima, si scopre sulla destra l'edificio principale delle rovine, il Palazzo, che corona una piramide di 60 piedi di altezza. Se, prendendo le mosse dall'ultima casa est-nord-est del villaggio, si procede verso sud, dopo aver attraversato il Bajlunthié (Fiume delle Tigri) si icontrano, a 3.500 passi dal punto di partenza, due piramiddi di cui rivendico la scoperta. Le ho scorte per la prima volta cercando un punto isolato, propizio alla coltura del mais; gli abitanti non ne sospettavano neppure l'esistenza, che è rimasta ignota anche a Stephens".
Brano dal libro "Descriptions des ruins de Palenque" (pubblicato nel 1866) di Jean Frédéric Waldeck (1766-1875: visse, infatti, 109 anni): antiquario, cartografo e artista francese. Collaborò con numerosi ricercatori dell'epoca, sostenendo l'idea di un'antica connessione fra Antico Egitto e civiltà Maya, attraverso il ponte creato dalla civiltà perduta di Atlantide.
Il brano descrive le rovine della città maya di Palenque (Chiapas, Messico), datata dal 226 all'800 d.C. Nella suggestiva descrizione dello scenario naturale è menzionato un grande albero che potrebbe essere il "Maculis amarillo" (Tabebuia Chrysantha), in lingua maya "Ajaw chè", che può raggiungere 25 metri d'altezza, con fiori di un colore giallo vistoso. E' una specie tipica di questa regione del Messico. Alla fine il testo menziona il famoso esploratore statunitense John Lloyd Stephens (1805-1852), anch'egli pioniere nello studio della civiltà Maya.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagine 181-182
Immagini: foto-ritratto di Waldeck e sua litografia con guerriero maya in costume di giaguaro.
"I geroglifici presenti sugli edifici americani sono troppo scarsi per autorizzare una qualsiasi conclusione decisiva. Tuttavia, paragonandoli a quelli del Codice di Dresda, probabilmente originari della stessa regione (Palenque), a quelli dei monumenti di Xochichalco e alla scrittura pittografica più rozza degli Aztechi, non è facile discernere checchessia che indichi un sistema comune. L'affinità con i caratteri egizi, caratteri le cui abbreviazioni delicate e raffinate quasi si accostano alla semplicità di un alfabeto, è ancor meno evidente. E, tuttavia, la scrittura di Palenque mostra uno stadio avanzato dell'arte; e quantunque un tantino goffa, indica per la forma convenzionale e arbitraria dei geroglifici, che aveva carattere simbolico e forse fonetico. Non bisogna nutrire eccessive speranze che un giorno il suo significato misterioso sia decifrato. I linguaggio del popolo che l'ha usata, il popolo stesso, sono sconosciuti. E non esiste la probabilità di rinvenire una seconda Stele di Rosetta, con una iscrizione trilingue atta a guidare il Champollion americano sulla via della scoperta".
Brano da "La conquista del Messico" (1843) dello storico statunitense William Hickling Prescott (1796-1859), nato a Salem, nel Massachussets. Compiuti gli studî giuridici alla Harvard University, viaggiò in Europa. Si dedicò soprattutto alla storia spagnola. (Fonte: enciclopedia Treccani)
Da adolescente ebbe un banale incidente che però gli causò la perdita progressiva della vista. Nonostante ciò i suoi studi proseguirono con grande applicazione. Scrisse molti saggi di storia spagnola dei quali "La conquista del Messico" è considerato il più memorabile.
L'opera in tre volumi narra l'inarrestabile avanzata di Cortés, il tragico destino delle popolazioni indigene e degli sventurati imperatori aztechi. Che la civiltà degli Aztechi, per certi aspetti molto avanzata, possa essere stata distrutta da poche centinaia di spagnoli, può sembrare tuttora inspiegabile. In quest’opera monumentale Prescott ricostruisce le fasi della Conquista con sfoggio di erudizione e altissime capacità narrative: l’inarrestabile avanzata di Cortés, il triste destino dei popoli indigeni e dei loro Re, sono qui protagonisti di uno degli eventi piú drammatici e inquietanti della nostra storia. (Fonte Einaudi)
Foto del testo da "Città Maya" di Pierre Ivanoff, pagina 181
Immagini:
I tre volumi di "La conquista del Messico" nella prima edizione del 1843 (edizioni Harper and Brothers-New York).
Foto di W. H. Prescott negli anni '50 del XIX secolo.
"Tra gli altri numerosi enigmi, che dire delle singolari pitture murali scoperte di recente dal dottor Gann (Thomas Gann: 1867-1938, medico e archeologo amatoriale irlandese) nell'Honduras britannico? All'estremità orientale dell'area maya, pitture di stile sostanzialmente nahua, benchè accompagnate da un'iscrizione in geroglifici maya? E' un affascinante argomento di speculazione, ma ancor più affascinante è il campo offerto da un'esplorazione attuale; una ricerca più approfondita in loco promette di fornirci dati di valore assai maggiore che interi volumi di dissertazioni edificate su indizi insufficienti".
Brano da "A glimpse at Guatemala" (pubblicato nel 1899) di Alfred Percival Maudslay (1850-1931), esploratore ed archeologo britannico. Nacque a Londra, nel quartiere di Lower Nordwood Lodge, da un'agiata discendenza di ingegneri. Viaggiò in gioventù alle isole Samoa, Figi e Tonga. Studiò scienze naturali alla Trinity Hall. Fu esploratore della regione archeologica dei Maya, che descrisse in un'ampia opera comprendente anche 4 volumi di tavole dedicati a Copán, Quiriguá, Chichen Itzá, Tikal, Palenque, ecc., nella monumentale enciclopedia "Biologia central-americana", edita da F. Ducane Goodman e Osbert Salvin (Londra 1889-1902). La sua raccolta di antica suppellettile maya, sculture e modelli in gesso, è unica al mondo e si trova al British Museum. (Fonte: enciclopedia Treccani).
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 182
Immagine: Alfred Maudslay nel suo laboratorio (da lui denominato "my room") all'interno dell'edificio soprannominato "Casa delle Monache" della città maya di Chichen Itza (Yucatàn, Messico; datata dal VI all'XI secolo d.C.), nel 1889.
P.S: nel testo è menzionata la compresenza di raffigurazioni in stile nahua e geroglifici maya in Honduras. Le differenze fra cultura maya e nahua sono molteplici; innanzitutto la cultura maya è molto più antica, essendo i popoli di lingua nahua correlati alla civiltà Azteca, posteriore a quella Maya.
"Non mi ero neppure immaginato fino a quel momento che quelle belle contrade fossero state abitate, prima dei viaggi di Cristoforo Colombo, da altri uomini che non fossero selvaggi...Il caso mi pose sottomano, qualche tempo appresso, un numero del Journal des Savants, contenente un resoconto sintetizzato della relazione di Del Rio (Antonio del Rio, 1745-1789, capitano spagnolo e pioniere delle spedizioni archeologiche in Messico) sulle rovine di Palenque. Mi sarebbe impossibile oggi descrivere l'impressione di stupore misto a piacere che mi procurò quella lettura; la quale decise della mia vocazione archeologica per l'avvenire. Un vago presentimento mi mostrò in lontananza non so quali vele misteriose che un istinto segreto mi induceva a levare e, sentendo parlare di Champollion, la cui fama cominciava a penetrare persino nei collegi di provincia, mi chiedevo vagamente se il continente occidentale non avrebbe un giorno contribuito anch'esso al grande lavoro scientifico che si operava in Europa".
Brano da "Histoire des nations civilisées du Mexique et de l'Amerique Centrale, durant les siecles anterieurs à Christophe Colomb" (4 volumi, pubblicati nel 1857) dell'Abbé Charles Étienne Brasseur de Bourbourg (1814-1874): abate e studioso francese, nato nel comune di Bourgbourg, nel nord della Francia. Archeologo ed etnografo, viaggiò nel Canada e quindi nel Messico, ove raccolse importanti materiali per lo studio delle civiltà precolombiane. Nel 1845 divenne sacerdote cattolico; dal 1848 al'63 fu missionario in America Centrale, principalmente in Messico. Studiò il sistema di scrittura maya, fece ricerche e pubblicò opere sulla civiltà Azteca. Fece una traduzione del Popol Vuh (libro sacro dei Maya) in francese dalla lingua Quichè, dopo aver scoperto nell'Università di San Carlos di Città del Guatemala la versione scritta da Fray Francisco Ximenez, datata 1703, a sua volta tradotta in spagnolo da un manoscritto più antico che era in caratteri latini ma in lingua indigena, nel quale appartenenti ad una stirpe di iniziati maya salvarono leggende e conoscenze della propria civiltà. Il lavoro di Ximenez fu doppiamente prezioso perchè, accanto alla traduzione spagnola, preservò l'originale in Quichè (scritto in caratteri latini). Questo libro, che viene detto pure la "Bibbia dei Maya", era venerato dagli indigeni guatemaltechi, che lo tennero gelosamente nascosto fino alla scoperta di F. Ximénez. Secondo Brasseur de Bourbourg esso sarebbe il famoso Teo Amoxtli (Libro Divino) dei Toltechi. In tutti i modi, esso è senza dubbio la più importante fonte religiosa antica dell'America Centrale. Ad oggi non è stato scoperto lo scritto originale dei discendenti maya, probabilmente risalente al XVI secolo (post conquista spagnola).
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 181.
Immagini: frontespizio del libro "Histoire des nations civilisées du Mexique" e foto di Brasseur de Bourgbourg.
DESIRE' CHARNAY E LE ORIGINI ASIATICHE DEI POPOLI AMERICANI
"Per me, mi ero detto che all'inizio delle cose, gli uomini, in qualsiasi parte della terra abitassero, avendo solo idee semplici e un piccolo numero, devono, nel formularle, incontrarsi a volte. La poesia primitiva, ricca o povera, secondo il genio della gente, mi aveva offerto nelle loro immagini paragoni di questo genere, e io prestai lo stesso linguaggio all'architettura. Ho sbagliato? Mi fermo. Credo che l'ignoranza sia piena di affermazioni e certezze; il dubbio ragionato, la grande discussione appartiene alla scienza. Affido quindi il mio lavoro nelle sue mani senza commenti; solo per creare una storia e colmare questa lacuna nella filiazione delle razze". ("Cités et ruines americaines", pagina V-VI, prefazione)
"Ammesso a priori che le Americhe fossero occupate da popoli provenienti dal nord, coloro che sarebbero passati dallo stretto di Bering dovevano naturalmente seguire il paese posto ad ovest tra le montagne e il mare, e scendere a poco a poco, per trovare climi favorevoli, fino all'altezza di 20 gradi, cioè in Messico; quelli che, partiti dalla Groenlandia, sarebbero approdati nella terra del Labrador, dovevano, sempre alla ricerca di un cielo più mite, scendere verso gli stati dell'Ohio, occupare la costa della Carolina, s'intende anche la penisola della Florida, identificare l'isola di Cuba, e presto lo Yucatàn. Sempre seguendo la nostra ipotesi, se i popoli provenienti da nord-ovest appartenessero a razze turaniche o malesi, e quelli provenienti da nord-est appartenessero a razze scandinave o indo-germaniche, è certo che nel discendere l'uno e l'altro verso il a sud, dovevano incontrarsi nel punto più stretto del continente americano tra i due mari, vale a dire sulle rive del Golfo del Messico. Se ancora supponiamo che una di queste due emigrazioni si fosse stabilita prima dell'altra sul territorio del Messico, la seconda deve aver intrapreso lunghe lotte con quest'ultima per diventare padrona del suolo". (Capitolo primo, pagina 7)
Brani da "Cités et ruines americaines" (pubblicato nel 1863) di Claude-Joseph Le Désiré Charnay (1828-1915), esploratore, archeologo e fotografo francese. Sono suoi i primi documenti fotografici delle rovine delle città maya di Mitla, Izamal, Chichen-Itza, pubblicate in "Citès et ruines americaines". Organizza spedizioni esplorative in diverse parti del mondo, oltre che in Centro America: Cile, Argentina, isola di Giava, Madagascar, Australia, creando preziose testimonianze fotografiche. Esplora i vulcani Popocatepetl e Itzaccihuatl nella penisola dello Yucatàn.
Desiré Charnay, come si evince dal testo, formulò una teoria sulle origini asiatiche delle popolazioni americane. Tradusse in francese le lettere di Hernando Cortès. Scrisse inoltre "Les anciennes villes du Nuveau Monde" (1885)
Foto: Desiré Charnay nel 1878.
"La nascita della civiltà Maya ebbe luogo al centro della regione settentrionale del Petèn, in un periodo compreso fra i tre o quattro secoli che precedettero e seguirono immediatamente l'inizio dell'era cristiana. Dobbiamo una tale accelerazione dell'impulso culturale a un'influenza esterna, ovvero fu di origine autoctona? Non lo sapremo forse mai. Ma il fatto che tali innovazioni siano apparse per la prima volta nel centro stesso della vasta regione destinata a costituire in seguito l'antico impero Maya (regione dei Maya classici) o, in altre parole, che abbiano costituito una manifestazione centrale e non periferica, indica chiaramente che sono nate nei siti in cui si sono rinvenuti gli indizi di maggiore antichità, vale a dire Uaxactun o Tikal".
Brano da "The ancient Maya" (pubblicato nel 1946; pagine 237-238) di Sylvanus Griswold Morley (1883-1948): archeologo, epigrafista e studioso della civiltà Maya; il suo campo di ricerca più importante fu il sito di Chichen-Itza (Messico, Yucatàn); fu autore di numerose opere divulgative sui geroglifici maya e sulle interpretazioni dei complessi calendari, con il controllo del tempo e dei suoi cicli come perno di questa civiltà. Le sue ricerche furono sovvenzionate dalla Carnegie Institution of Washington, con un progetto gigantesco di restauro della città maya di Chichen-Itza, destinato a durare non meno di vent'anni, con l'appoggio del governatore della vicina città di Merida. Un discorso a parte è la sua missione come spia dei servizi segreti americani nella Prima Guerra Mondiale. Nacque in Pennsylvania, si laureò alla Harvard University.
"Io non vedo mai questi memoriali di un popolo dimenticato da tempo, ma mi viene in mente quel “sic transit gloria mundi". Qui giacciono, sepolti in un cespuglio quasi impenetrabile, a lungo dimenticati dall'uomo, i nomi stessi dei loro costruttori sconosciuti. Quale sforzo, quale tremendo sforzo è stato necessario per la loro costruzione, e tutto per nulla. Ora, con le viti che strisciano sui loro muri fatiscenti, alberi massicci strappano le loro stesse fondamenta; questi luoghi un tempo santi sono diventati i ritrovi di bestie feroci, testimonianze eloquenti del carattere transitorio della gloria e vanità mondana. Sic transit gloria mundi". (Da "Diari di campo archeologici" di Sylvanus Morley, 1914-1916")
Foto:
S. Morley nel sito maya di Copàn, in Honduras, nel 1912.
Sylvanus Morley seduto davanti alla Porta Ovest del Tempio delle Serie Iniziali; anno 1913, sito di Chichen-Itza, Messico, Yucatàn.
Recensioni:
"E' nostra fortuna che il Dr.Morley, che è il più grande campione che i Maya abbiano mai avuto, abbia ritenuto opportuno riassumere così bene e così magnificamente i risultati di molti anni di paziente ricerca". (The Atlantic Monthly)
"Gli antichi Maya rimangono la nostra affermazione più completa, la nostra più autorevole sulla civiltà unica del Guatemala e dello Yucatàn. Il libro è profondamente critico nel testo ed è brillantemente e splendidamente illustrato". (The New York Herald Tribune)
"La scoperta più stupefacente fu quella che mostrò come la base della Stele dell'Est e la base della Stele dell'Ovest siano esattaamente sullo stesso livello. Secondo l'opinione di Lindsay, ciò indica palesemente che i Maya conoscevano una forma di misurazione del livello d'acqua. Più si procede nell'indagine delle vestigia di questo popolo interessante, più ci si rende conto che ne abbiamo soltanto sfiorato le cognizioni in materia di astronomia, fisica, aritmetica e arte".
Dal libro "Ancient cities and modern tribes" (pubblicato nel 1926; 226 pagine) di Thomas William Francis Gann (1867-1938): medico irlandese ed archeologo per passione, condusse importanti spedizioni esplorative alle rovine della civiltà Maya. Venne inviato come ufficiale medico nell'allora Honduras Britannico, dove si accese il suo interesse per gli antichi monumenti della colonia, organizzando successivamente il suo primo viaggio in Yucatàn. Grazie a lui furono scoperti molti siti, fra cui Lubaantún, Ichpaatun e Tzibanche; redasse documentazioni dettagliate sui siti di Lamanai e Xunantunich. Lo stesso fece a Tulum, scoprendo, nel 1920, la statua in stucco di un idolo praticamente ancora intatta.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 182.
Immagini:
1- Thomas Gann nel sito archeologico di Tulum, accanto alla celebre statuetta in stucco da llui scoperta, anno 1920.
2- Thomas Gann, foto del 1930.
3- idolo in stucco scoperto da Thomas Gann presso la città maya di Tulum; alto circa 70 cm.; datato circa 500 d.C.; esposto al British Museum.
TIKAL E LA MISTERIOSA SCOMPARSA DELLA CIVILTA' MAYA, di William Robertson Coe
"Perchè e come la città di Tikal si è sviluppata? Che ne è stato? Qual'è stata la sua posizione sul piano sociale? Tutti questi interrogativi più che fondati non otterranno facilmente una risposta. E' del pari assai difficile spiegare la fine di Tikal e quella delle sue ramificazioni classiche, punto, questo, che riguarda nel complesso il crollo della civiltà delle pianure. Tutto ciò che sappiamo, sottolinea una rapida disintegrazione dell'autorità e della direzione classiche. Ma in merito alle loro vere cause ed effetti attorno all'anno 900 d.C., gli scavi non ci hanno rivelato alcunchè. Se gli archeologi avessero avuto una maggiore conoscenza di ciò che è avvenuto nel periodo classico (l'organizzazione interna e i rapporti delle popolazioni con l'ambiente circostante) i germi e le condizioni preliminari del crollo sarebbero stati identificati".
Brano da "Tikal- A handbook of the ancient Maya ruins" (1967) di William Robertson Coe (1906-2009): archeologo, antropologo, mayanista ed accademico statunitense. Diresse il progetto di ricerca nella città maya di Tikal (Guatemala, regione del Petèn, fondata nel 200 d.C.), nel 1956 per conto dell'Università di Pennsylvania. Suo fratello, Michael Douglas Coe (1929-2019) fu altresì un valente archeologo, antropologo ed epigrafista, ma purtroppo fra ai due ci furono dei diverbi mai risolti e nessuna collaborazione.
La città maya di Tikal, le cui rovine furono restaurate sotto la direzione di William Robertson Coe, fondata nel 200 d.C., conobbe il suo massimo splendore dal 700 all'800 d.C. Il sito conta circa 200 templi, divisi fra l'Acropoli nord e sud e la Piazza dei 7 Templi.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagina 183.
Immagini:
Foto di William Robertson Coe.
Lavori in corso per liberare la Piramide a tre gradoni, detta "Piramide dei Giaguari", nel 1956.
Il brano pone interrogativi sullo sviluppo e sulle ragioni del tramonto della città-stato maya di Tikal, in relazione alla decadenza e alla misteriosa scomparsa, intorno al 900 d.C., della civiltà Maya nel suo complesso, che dominò l'America Centrale nelle aree corrispondenti al Messico, Belize, Guatemala, Honduras. La ragione della rapida fine della civiltà Maya non ha nemmeno oggi, nel XXI secolo, trovato risposta.
THOMAS BARTHEL E IL DIBATTITO SUL CARATTERE FONETICO DEL SISTEMA DI SCRITTURA MAYA
Dal libro "L'art des Mayas du Guatemala" di Thomas Sylvester Barthel (1923-1997): etnologo ed epigrafista tedesco, nato a Berlino. Nel 1952 conseguì il dottorato ad Amburgo con una tesi sul sistema di scrittura maya. Fu il primo ad individuare, nei glifi maya, emblemi relativi a gerarchie e gruppi sociali di vario genere. Identificò quattro glifi-emblemi principali; la ricerca fu estesa ed approfondita in seguito dall'archeologa Joyce Marcus (nata nel 1948 in California). Come J. Eric S. Thompson (1898-1975), Barthel criticò l'interpretazioe fonetica della scrittura maya, ritenendo che si trattasse unicamente di emblemi geroglifici, senza indicazioni di suono, e che quindi non fosse una scrittura vera e propria, ma piuttoso un messaggio per immagini. All'inizio degli anni '50 si oppose alle tesi del linguista, epigrafista ed etnografo sovietico Yuri Knorozov (1922-1999), che riconobbe il valore fonetico della scrittura maya. Ma lo sviluppo successivo negli studi internazionali sulla scrittura maya, dimostrò che Knorozov aveva ragione. Le iscrizioni maya vengono denominate semplicemente "glifi" (dal greco "glypho", e cioè un qualsiasi segno inciso o disegnato) e sono fondamentalmente diverse da quelle egizie (geroglifiche), poiché la scrittura Maya è fonetica (ti mostra come pronunciare le parole che stai leggendo), e quindi un sistema di scrittura completo; i geroglifici egizi, invece, non includono vocali e non sono fonetici. Oltre a questo, Thomas Berthel catalogò e decifrò il sistema di scrittura "Rongorongo", coperta nel 19° secolo nell'Isola di Rapa Nui.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 183.
Immagini:
1- Thomas Barthel nel suo studio.
2- Copertina del libro "L'art des Mayas du Guatemala" di Thomas Barthel (1967-1968).
"Restano tuttora inesplorate zone immense dell'antico regno maya. Le acque del fiume Usumacinta scorrono attraversando un numero incalcolabile di città abbandonate, che nessuno studioso ha finora liberato dalla vegetazione della giungla e dai detriti della decadenza. Nella foresta del Petèn e nella zona centrale della penisola dello Yucatàn, vi è una miriade di templi coperti dalla vegetazione e di acropoli crollate, e gli altipiani montagnosi del Guatemala dell'Honduras sono disseminati di elevazioni e di strutture a metà scoperte. Al pari di Stephens, Maudslay, Thompson e Ruz, altri uomini scaveranno in questi spazi sconosciuti fino a che ne siano svelati i segreti".
Brano dal libro "Maya-The riddle and rediscovery of a lost civilization" (1959) di Charles Benton Gallenkamp, scrittore americano, nato a Dallas, Texas, nel 1930 (in vita). Laureato in Antropologia e Storia all'Università del New Mexico (1954); membro di numerosi istituti di ricerca storica, antropologica ed archelogica, fra cui la Società Americana di Archeologia, l'Istituto Americano di Archeologia, Explorers club, School American Research, ecc...
La civiltà dei Maya in Messico e in America centrale è uno degli enigmi archeologici più intriganti del mondo.Fu un tempo una civiltà altamente evoluta, intorno all'800 d.C., le città furono abbandonate, i templi lasciati incompiuti e la presenza della sua cultura, della sua arte, del suo patrimoio di conoscenze evaporò in un lasso di tempo così breve da non trovare nemmeno oggi, nel XXI secolo, spiegazioni plausibili. Charles Gallenkamp svela le molte meraviglie di questo mondo perduto e offre uno sguardo raro alle emozionanti esplorazioni che scoprirono molti dei segreti a lungo sepolti.
Foto del testo dal libro "Città Maya" di Pierre Ivanoff, 1970, pagine 182-183.
Immagini:
1- foto-ritratto di Charles Gallenkamp da giovane.
2- foto del libro "Maya-The riddle and rediscovery of a lost civilization", di Charles Gallenkamp, pubblicato nel 1959.
YURI KNOROZOV: LA MENTE GENIALE CHE DECODIFICO' LA SCRITTURA DEI MAYA
Dopo 500 anni durante i quali si avvicendarono archeologi, etnografi, antropologi, epigrafisti, monaci eruditi di tutto il mondo, un giovane studente sovietico, negli anni '50, decodificò i misteriosi "geroglifici" maya, scoprendo un sistema di scrittura fonetico-sillabico fra i più perfetti del mondo.
YURI VALENTINOVICH KNOROZOV (1922-1999), linguista sovietico, nato a KHARKIV (Repubblica Socialista Sovietica Ucraina). I genitori erano ingegneri russi e sua nonna paterna (MARIA SAKAVYAN), un'attrice teatrale conosciuta anche per le sue doti di ipnotizzatrice; questo accese il suo interesse per lo studio della mente, in modo che iniziò il suo percorso iscrivendosi alla FACOLTA' DI MEDICINA DI KHARKIV, scegliendo il ramo della psicologia; abbandonò questo settore in seguito per dedicarsi alla storia. Solo due anni dopo essersi iscritto all'università, nel 1939, scoppiò la SECONDA GUERRA MONDIALE e fu costretto ad arruolarsi nell'Esercito, nonostante fosse di salute cagionevole, svolgendovi comunque dei compiti che non misero in pericolo la sua vita. In ogni modo, fece parte di quell'ARMATA ROSSA che, nel 1945, sconfisse la forza militare nazista issando la bandiera con falce e martello sul REICHSTAG, come si vede nella famosa fotografia dell'epoca. YURY KNOROZOV, il più giovane di cinque fratelli, era un genio; da ragazzo, come autodidatta, imparò alla perfezione la lingua cinese, l'arabo ed il greco. Fin da bambino mostrò una straordinaria intelligenza e venne, perciò, incoraggiato dai genitori a scrivere con tutte due le mani per esercitare e armonizzare i due emisferi cerebrali.
Il celebre monumento, a grandezza naturale, in bronzo, di YURY KNOROZOV, raffigurato con la sua inseparabile gatta siamese, ASJA, si erge accanto all'ingresso del SIGLO XXI CONVENTION CENTER della città di MERIDA, capitale dello YUCATAN, MESSICO. Sulla targa ai piedi della scultura vi sono riportate le sue parole:
"Nel mio cuore sarò sempre messicano".
YURY KNOROZOV ricevette la più alta onoreficenza assegnata dal Governo Messicano: la medaglia dell'"ORDINE DELL'AQUILA AZTECA", nel 1994. Questa onoreficenza gli fu conferita all'Ambasciata Messicana a MOSCA, senza ch'egli avesse mai conosciuto personalmente il MESSICO, a causa delle restrizioni vigenti durante la GUERRA FREDDA nei decenni precedenti. KNOROZOV, una delle più grandi menti geniali della storia recente, era riuscito a decifrare, soltanto con l'aiuto di documenti cartacei e copie di libri manoscritti, a migliaia di chilometri di distanza dal CENTRO AMERICA, i GLIFI MAYA, ovvero un sistema di scrittura su cui per 500 anni si erano arrovellate le menti di archeologi, epigrafisti, monaci ed esperti di tutto il mondo. Il primo fra gli studiosi della scrittura maya fu il frate francescano spagnolo, poi vescovo di MERIDA, DIEGO DE LANDA (1524-1579), che paradossalmente fu colui che ordinò, precedentemente, la gigantesca distruzione dei libri presenti in tutte le biblioteche dei templi maya, causando una vera e propria apocalisse verso il patrimonio dell'umanità; in età più matura e giudiziosa, DE LANDA provò a rimediare al danno impegnadosi in ricerche storiche, studi della scrittura e delle tradizioni della CIVILTA' MAYA, dotando i posteri di un'importante fonte di informazioni: il suo libro "RELACION DE LAS COSAS DE YUCATAN", pubblicato solo nel 1864 a PARIGI, grazie alla traduzione in francese di BRASSEUR DE BOURBOURG (archeologo francese, nato a BOURGBOURG, comune vicino a PARIGI), il quale scoprì il manoscritto nella biblioteca dell'ACCADEMIA STORICA DI MADRID. Nell'aprile del 1945, alla sconfitta della GERMANIA NAZISTA, in mezzo alla devastazione dei bombardamenti, il giovane soldato sovietico YURY KNOROZOV salvò, dalla BIBLIOTECA PRUSSIANA DI BERLINO, due preziosi libri: una copia del libro di DE LANDA ("RELACION DE LAS COSAS DE YUCATAN") e "LOS CODICES MAYAS" dei fratelli JOSE' ANTONIO (1879-1964) e CARLOS VILLACORTA (...-...), in un'edizione del 1933, con disegni degli autori che riproducono quelli presenti nel CODICE DI DRESDA. In seguito a questo ritrovamento, KNOROZOV venne così attratto dall'indagine sulla scrittura maya, che, a guerra finita, si recò a MOSCA per potersi immergere nel suo studio. Ma in quali circostanze YURY KNOROZOV venne a contatto con il libro di DE LANDA? Queste le sue parole:
"Le autorità tedesche stavano predisponendo un'evacuazione, per trasferire i libri probabilmente in Austria, sulle Alpi. I libri, riposti nelle scatole, erano in mezzo alla strada, così ne ho scelti due".
A guerra conclusa, ritornò in RUSSIA, e nell'autunno del 1945 abbandonò lo studio dell'etnografia presso l'UNIVERSITA' LOMONOSOV DI MOSCA, per scendere sul campo intraprendendo dei viaggi di ricerca archeologici ed etnografici in ASIA CENTRALE, dove s'interessò alle pratiche scimaniche e ai riti ancestrali delle confraernite SUFI. Oltre allo studio dello sciamanesimo, KNOROZOV si specializzò in egittologia e lingue antiche; scrisse tesi sui NATIVI AMERICANI, sul popolo AINU e sullo SCIAMANESIMO; lavorò alla decifrazione della Proto-scrittura dell'isola di RAPA NUI, fino ad imbattersi nell'articolo accademico del ricercatore tedesco PAUL SCHELLHAS (1859-1945), intitolato: "LA DECIFRAZIONE DELLA SCRITTURA MAYA: UN PROBLEMA INSOLUBILE?". Da quel momento si accese la scintilla di un interesse totalizzante e YURY KNOROZOV decise di dedicarsi a tempo pieno allo studio della scrittura maya. A causa della sua giovane età, gli insegnanti si mostrarono scettici riguardo questa sua scelta: si trattava di un'indagine che nell'arco di 500 anni ha tenuto impegnati ricercatori di tutto il mondo e pareva che, ormai, tutti avessero gettato la spugna. La sua risposta a questo scetticismo fu:
"Qualsiasi sistema, o codice creato da un essere umano, può essere risolto da qualsiasi altro essere umano".
Ma un professore più illuminato, SERGEY ALEKSANDROVICH TOKAREV(1899-1985; studioso russo, etnografo, storico, studioso delle religioni, dottore in scienze storiche e professore all'UNIVERSITA' STATALE DI MOSCA) lo appoggiò in questa sua impresa. Fu allora che KNOROZOV si mise alacremente all'opera, ordinando per i suoi studi delle copie fac-simile di tutti i codici maya custoditi nelle biblioteche d'EUROPA: di DRESDA, PARIGI e MADRID. Imparò velocemente lo spagnolo. La GUERRA FREDDA successiva al conflitto mondiale, impedì a KNOROZOV di lasciare l'UNIONE SOVIETICA per recarsi di persona nei luoghi della CIVILTA' MAYA; infatti solo negli anni '90 egli potè recarsi in quei siti, vedere con i propri occhi le gigantesche strutture, le stele, i templi-piramide, le statue e i grandi capolavori di questa cultura, mentre fino a quel momento fu costretto ad interessarsene esclusivamente mediante documenti fotocopiati e dal suo ufficio di LENINGRADO.
IL METODO DI DECIFRAZIONE DI YURI KNOROZOV E L'INTERPRETAZIONE FONETICO SILLABICA DELLA SCRITTURA MAYA
La decifrazione della scrittura maya da parte di YURY KNOROZOV, avvenne applicando l'analisi strutturale sistematica e il metodo delle statistiche posizionali per identificare la frequenza con cui un segno viene utilizzato all'interno di un testo. A differenza, ad esempio, del sistema di DE LANDA, che avrebbe voluto trovare un'equivalenza dei segni maya per ogni lettera dell'alfabeto latino, KNOROZOV scoprì che non vi poteva essere equivalenza, perchè LA SCRITTURA MAYA E' SILLABICA, cioè composta da 355 segni fonetici e morfemi cosillabici, vale a dire che i glifi scritti dai MAYA consistono sia in logogrammi (segni che rappresentano una parola completa) che in segni fonetici in cui ogni glifo rappresenta una combinazione consonante-vocale; inoltre egli comprese che la complessità della scrittura maya era data dal fatto che ogni parola poteva essere scritta in tre modi diversi: in modo ideografico, con un sistema fonetico-ideografico, oppure in modo solamente fonetico.
La sua scoperta confermò il fatto che IL SISTEMA DI SCRITTURA MAYA E' FONETICO-SILLABICO, ed è uno dei più perfetti del mondo. Date tutte queste premesse, nel 1952, KNOROZOV riuscì a scoprire la chiave per l'interpretazione degli scritti maya, pubblicando il frutto delle sue ricerche sulla rivista "SOVIETSKAJA ETNOGRAFIJA JOURNAL", intitolato "ANCIENT WRITING OF CENTRAL AMERICA", uscito nell'ottobe del '52. In seguito a questa straordinaria rivelazione, il mondo si domandò come, in mancanza di una Stele di Rosetta americana, e quando tutto il mondo ormai si convinse a gettare la spugna, lui potè riuscire in quest'impresa. La sua risposta fu che la maggior parte di coloro che prima di lui ci avevano provato, erano archeologi, mentre egli era un linguista.
Come accade frequentemente nell'ambiente accademico, la straordinaria scoperta di YURY KNOROZOV non fu da tutti celebrata, riconoscendone la genialità; non tardarono a manifestarsi risentimenti e attacchi indirizzati alla sua persona che spesso andavano oltre il semplice disaccordo scientifico, poichè il carattere fonetico della scrittura maya venne sempre rifiutato a priori da chiunque fino ad allora. Il più grande avversario di KNOROZOV in questo campo fu il famoso archeologo inglese ERIC THOMPSON (1898-1975), che nel 1950 scrisse un'opera intitolata "SCRITTURA GEROGLIFICA MAYA" ("Maya hieroglyph writing"), in cui negava qualsiasi fonetismo in quel sistema, vedendo nella scoperta di KNOROZOV la demolizione del suo lavoro. A ERIC THOMPSON si aggiunse THOMAS BARTHEL (1923-1997; etnologo ed epigrafista tedesco), che si oppose strenuamente alle scoperte dello studioso sovietico.
Nel 1956, il GOVERNO SOVIETICO concesse a KNOROZOV di recarsi a COPENHAGEN, per esporre i suoi studi in una conferenza, in cui erano presenti un centinaio di studiosi di cultura maya. Nonostante il tardivo riconoscimento del suo merito, dal 1970 in poi le sue scoperte vennero ufficialmente riconosciute e nessuno mise più in dubbio la giusta INTERPRETAZIONE FONETICA SILLABICA DELLA SCRITTURA MAYA. Nel 1992 l'archeologo e antropologo statunitense MICHAEL DOUGLAS COE (1929-2019) scrisse un libro intitolato "BREAKING THE MAYA CODE", in cui riconobbe gli errori di THOMPSON e il genio di KNOROZOV; in un'intervista disse: "Ora siamo tutti knorozovisti". In UNIONE SOVIETICA le ricerche di KNOROZOV diedero impulso alla fondazione di riviste sulle civiltà mesoamericane; l'UNIVERSITA' DI MOSCA creò il "CENTRO DI STUDI CENTRO-AMERICANI YURY KNOROZOV". Fu così che da allora per gli studiosi della CIVILTA' MAYA e delle civiltà precolombiane, gli istituti di ricerca russi divennero un punto di riferimento fondamentale e una fonte imprescindibile di informazioni.
Nel 1991, con la fine della GUERRA FREDDA, YURY KNOROZOV si recò in GUATEMALA, e visitò per prime le città maya di TIKAL e UAXACTUN, ricevendo la più alta onoreficenza del GOVERNO GUATEMALTECO: l'"ORDINE DEL QUETZAL". Nel 1994, come già detto, ricevette, presso l'ambasciata messicana a MOSCA, la medaglia dell'"ORDINE DELL'AQUILA AZTECA". Visitò anche il sito archeologico di PALENQUE, nel CHIAPAS, MESSICO, e il parco nazionale di XCARET, nel QUINTANA ROO (stato messicano). Nel 1999 KNOROZOV morì, colpito da un ictus. La sua tomba si trova in un vecchio cimitero di SAN PIETROBURGO; la sua lapide è stata ideata come una stele maya, con il suo ritratto in bassorilievo nella parte frontale, assieme alla sua inseparabile gatta siamese di nome ASYA; la sua data di nascita e morte è scolpita con glifi maya; sul retro è stato riprodotto un bassorilievo dalla città di PALENQUE. Lo studioso accademico PEDRO JIMENEZ LARA (Universidad Veracruzana) lo ha definito "IL CAVALIERE ROSSO" ("El caballero rojo"), il russo-messicano che aprì le porte alla cultura e alla conoscenza della CIVILTA' MAYA, permettendo la realizzazione di un vero e proprio ponte fra il presente e il passato: un contributo essenziale al patrimonio dell'umanità e alla memoria universale.
LA MITICA GATTA ASJA DI KNOROZOV
YURY KNOROZOV era una persona molto riservata ed introversa. Aveva una grande passione, oltre ai suoi interessi scientifici: i gatti, che considerava animali sacri. Nella sua foto più famosa, KNOROZOV viene immortalato con in braccio la sua inseparabile gatta siamese, ASJA, che lui seriamente considerò sempre come co-autrice dei suoi lavori, poichè proprio l'osservazione di ASJA che insegnava ai suoi cuccioli a catturare i topi lo portò all'idea brillante sulla classificazione dei segnali, che poi applicò all'interpretazione della scrittura maya. Dal punto di vista di uno scienziato, la comunicazione (sia orale che scritta) si basa su "segnali-messaggi" e "segnali-ricezione di messaggi". E poiché ASYA è stata coinvolta nello sviluppo di questa idea con la sua tecnica di caccia ai topi, YURY VALENTINOVICH KNOROZOV volle indicarla come sua coautrice, e si dimostrò molto irritato dal fatto che gli editori non l'aggiungessero mai al loro elenco. (Alessia Birri)
Alessia Birri, 30 settembre 2023